PRESS REVIEW

PROGETTO ELP


ASSIMILIA. Dal dispositivo ELP di Paola Bianchi una nuova fase di indagine per corpi nel presente
Laura Gemini - 17 gennaio 2022 incertezzacreativa.wordpress.com

ASSIMILIA è l’ultimo lavoro del complesso progetto ELP al quale Paola Bianchi lavora dal 2018 e che porta avanti le istanze di quella ricerca coreografica incentrata sul corpo politico, emergenza di pratica artistica e di vita espressa nella radicale scelta di indipendenza artistica e prassi creativa, di cui è possibile coglierne livelli e seguirne gli sviluppi nel volume Paola Bianchi Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento a cura di S. Bottiroli e S. Parlagreco, Editoria&Spettacolo, Spoleto 2014 e nel blog http://paolabianchi-it.blogspot.com/


Nel caso di ELP il movente di fondo può essere rintracciato già nello sviluppo del titolo visto che ELP è l’acronimo di Ethos Logos e Pathos e che, se non viene male interpretata la poetica di Bianchi, rimanda prima di tutto e sempre a una presa di posizione sull’essere artista come scelta umana, di relazione e politica. Un modo di essere che si pone sullo sfondo del rapporto tra individuo e società, relazione tra nuda vita, singolarità, pathos, forza emotiva – che si esprime nel corpo – e comunicazione, sociale, norma, ethos, logos, linguaggio.

I livelli dell’esperienza su cui si interroga Paola Bianchi sono da sempre quelli dei confini entro i quali la libertà del corpo si può esprimere – di cui la danza è sì veicolo privilegiato d’indagine ma che riguarda tutte e tutti come fatto biopolitico – e per questo il suo campo di riflessione comprende sia le dimensioni fisiche (lo spazio), sia quelle simboliche che riguardano prima di tutto le forme del potere.

Ma dire centralità del corpo – e corpo politico che, vale la pena ribadirlo, è parola chiave del progetto artistico di Paola Bianchi – significa anche porre un’attenzione problematica alla relazione del corpo con il linguaggio e con i linguaggi.


In linea con quel tipo di sensibilità che intorno agli anni Novanta ha consolidato il campo degli studi sulla cultura visuale e che ha prodotto una svolta decisiva nell’identificare i territori dell’immagine e degli immaginari come contesti significativi dell’esperienza, il progetto ELP lavora sul piano di un primo innesco – trigger –  drammaturgico sulla raccolta di immagini provenienti da un gruppo di persone invitate a condividere la propria “memoria retinica” (la sociologia visuale chiamerebbe questo processo di raccolta: native image making) così da costruire un repertorio iconografico e iconico condiviso, cioè basato su immagini appartenenti all’immaginario collettivo (in una prima fase occidentale ma successivamente esteso ad alcune persone con background migratorio che vivono in Italia).


Attraverso l’approfondimento dell’analisi – passato soprattutto ma non soltanto attraverso lo scavo analitico di Georges Didi-Huberman e degli studi su Bacon (altra “storica” fonte di indagine di Paola) di Gilles Deleuze – le immagini ricevute sono state elaborate o meglio tradotte nelle posture/figure su cui sono composte le partiture coreografiche.

Non, dunque, rappresentazione didascalica e riconoscibile delle icone del nostro tempo – che restano deposito simbolico non verbalizzabile benché comunicabile – ma piuttosto segni, frammenti posturali, movimenti del corpo, figure appunto che diventano per Paola un pretesto per una sfida politica potente all’autorialità coreografica intesa come processo di trasmissione per imitazione. Cerchiamo di capire come.


A partire dal primo solo ENERGHEIA, costruito attraverso le figure emergenti dall’immaginario occidentale, e successivamente dal solo O_N – elaborato a sua volta dalla traduzione delle immagini non occidentali – passando attraverso i laboratori ESTI, con non professionisti, Paola Bianchi ha messo a punto il processo di trasmissione coreografica basato sulla creazione di archivi di posture descritte verbalmente, registrate e consegnate in file audio a danzatrici e danzatori da cui sono nati lo spettacolo collettivo EKPHRASIS e il solo con Barbara Carulli Other OtherNess. Si tratta di due lavori particolarmente potenti, frutto del lavoro e della relazione fra il processo di incarnazione della parola descrittiva (la coreografia) da parte delle/dei performer e il lavoro in sala con la coreografa, fra enazione, cioè della produzione autonoma del proprio movimento, e co-enazione, cioè dello scambio, confronto relazione durante le prove. 


Tutto questo per dire che sia nei laboratori, sia nella realizzazione degli spettacoli – così come nelle altre fasi del progetto, anche in quelle ancora in lavorazione su cui si avrà modo di tornare – la trasmissione riguarda il segnale-parola che diventa informazione solo nel momento in cui viene incarnato da chi lo esegue. Su questa base, quello che va tenuto bene presente, è che il principio creativo, l’idea coreografica, il progetto artistico dell’autrice che l’ha costruito non è espunto. Paola Bianchi non si sottrae dalla sua creazione coreografica. Il processo è più radicale: la parola coreografica che si va a incarnare diventa di chi la esegue il che vuol dire rinunciare all’imitazione del corpo del maestro, vuol dire rinunciare alla logica della trasmissione del sapere come principio gerarchico, spesso confuso con la complementarità che invece va mantenuta. Non dunque negazione dell’autorialità, delle distinzioni interne, delle complementarità, delle differenze ma della gerarchia del potere.


Il lavoro sulla parola, la traduzione dell’immagine in parola, è poi particolarmente interessante perché rimanda al dibattito che anima ancora la legittimità scientifica delle immagini e il paradosso iconoclastico dell’Occidente, e probabilmente non solo. Tanto che sono molti e diversi gli immaginari che un lavoro come ELP intercetta, come si diceva, trovando spazio anche nelle immagini che hanno portato alla fase intitolata CORPI DELLA PROTESTA e alla realizzazione della durational performance NoPolis.


Ed è nel contesto di ricerca che origina e procede nella connessione fra corpo, potere e linguaggio per indagare un proprio modo di «stare e agire nel mondo» indistinto da un proprio «essere nella scena» che si è innestata la pandemia – con il suo portato di criticità – per “costringere” verso un ulteriore livello di indagine la poetica del corpo da cui nasce il nuovo solo ASSIMILIA.

Concentrato nel presente ASSIMILIA lavora sul senso di quelle cose simili che ci tengono insieme fra libertà e costrizione.


Un corpo che non è più libero di muoversi nello spazio [e mentre noi lo sperimentiamo per questioni legate alla salute pubblica politicamente gestite maldestramente, intorno a noi le tragedie dei corpi si consumano senza che si levino grandi proteste per la libertà mi pare] – in ASSIMILIA è di nuovo quello di Paola Bianchi che esegue gli archivi di posture ottenuti attraverso la registrazione della descrizione delle immagini ascoltandole ogni volta dagli auricolari indossati in scena e che sente solo lei mentre si muove dentro uno spazio-scatola-laboratorio costruito dalle luci di Paolo Pollo Rodighiero e dallo straniante ambiente sonoro di Stefano Murgia costretta da una gonna lunga e pesante.


L’impalcatura visiva che compone la drammaturgia della messa in scena è un aspetto saliente del lavoro di Bianchi che cura personalmente il design e la realizzazione del costume di scena. Il pesante tessuto della gonna lunga, che la trattiene e rende più faticosi i movimenti, diventa parte della coreografia, dimensione iconografica, drappeggio statuario, ostacolo sempre superato da una gamba, da un piede, fino a quando viene sollevata e agganciata in vita per lasciare finalmente scorrere meglio il movimento.


Su un impianto coreografico mirabile – dove l’esperienza di danzatrice di Paola Bianchi e la consapevolezza del suo gesto raggiungono picchi elevatissimi – ASSIMILIA aggiunge un ulteriore tassello alla dimensione drammaturgica di ELP e alla messa a punto del dispositivo di ricerca sulla trasmissione. Infatti, se dal lato più riflessivo, il lavoro ci parla del processo dell’etero-direzione, che per le teorie dell’informazione è anche la strategia più efficace della trasmissione, lo spettacolo ci dice anche qualcos’altro.

Attraverso l’auto-esposizione alla parola descrittiva della coreografia l’attenzione si sposta verso la consapevolezza dell’etero-direzione ma anche, e dal punto di vista del meccanismo creativo, al processo di auto-etero-direzione che è la condizione paradossale e particolarmente interessante che scopriamo quando verso la fine sentiamo la voce di Paola che le indica i movimenti da eseguire. Il disvelamento del dispositivo diventa così un ulteriore elemento con cui Paola Bianchi mantiene il patto spettatoriale, ovvero la proposta di una relazione con il pubblico che non è mai scontata, didascalica e che non accetta la finzione come formula narrativa. 



OTHER OTHERNESS
Lucia Medri - dicembre 2021 - Cordelia teatroecritica.net

Il progetto ELP | altre memorie con il quale Paola Bianchi ha vinto nel 2020 il Premio Rete Critica trova una parziale – rispetto alla totalità – incorporazione in Other OtherNess creazione danzata dalla giovane Barbara Carulli, andata in scena durante Teatri di Vetro. Nello spazio buio, le luci di Rodighiero fendono la penombra in tagli obliqui, tra i quali si muove la nuvola ramata del tutù indossato da Carulli, unica veste oltre il copripetto color carne. La fisicità esile ma vigorosa della danzatrice, che già possiede nonostante la giovane età una propria caratura interpretativa, meccanicamente sedimenta le sequenze delle posture collettive trasmesse via audio da Bianchi. Vi è un incontro di frequenze, sonore (musiche originali di Fabrizio Modonese Palumbo) e corporee, sintetizzate in una sequenza di movimenti “alternati”, allo stesso tempo sghembi e armonici, contorti e distesi, rigidi e scomposti, impressionabili nella memoria individuale come una successione di fotografie, a ricordare tutte le immagini, storiche, fissate nella memoria di coloro che – nelle prime fasi di ricerca di ELP – erano stati chiamati a partecipare alla raccolta dell’«archivio di corpi». Quell’”altra alterità” del titolo diventa diapositiva del dialogo che ha legato entrambe nel processo, costruito attraverso la trasmissione di archivi di posture da parte della coreografa all’interprete e concentrato sulla «dichiarazione di esistenza» del corpo e non sull’imitazione di un insegnamento. 

Visto a Teatro India, Roma – Crediti: Concept e coreografia Paola Bianchi; creato e danzato da Barbara Carulli; musiche originali Fabrizio Modonese Palumbo; disegno luci Paolo Pollo Rodighiero 


BIANCHI, D’INTINO, DAS DING: TRE CRONACHE DI DANZA DA TEATRI DI VETRO
Carlo Lei - 18 dicembre 2021 klpteatro.it

[ … ] uno spazio doppiamente delimitato, doppiamente disegnato al di là del mondo reale: è quello di “Other Otherness” di Paola Bianchi, in scena Barbara Carulli.

Il progetto, nato per la scorsa edizione del festival, è ora in scena in una sala già immersa nel buio all’ingresso del pubblico, il palco bagnato dalle luci “parlanti”, millimetriche, squisite di Paolo Pollo Rodighiero, disposte sulle americane con poetica libertà, verdi per la superficie del palco, ma dettagliatamente color carne, la stessa carne del busto nudo di Carulli, del suo tutù di tulle, e sorprendenti in una doppia batteria di Domino a terra, squintate e contrastanti.
Doppiamente disegnato, si diceva: perché sul palco è segnato un quadrilatero irregolare, dal quale la danzatrice non uscirà mai.
Sotto un suono indistinto, un cupo avvolgersi di qualcosa su sé stessa, Carulli cade, si rialza, vortica, cade, ricomincia, con una levità che non sa di pena corporale, ma quasi di condanna ultraterrena – non c’è dolore fisico, c’è solo un tempo imprecisato, forse infinito, da passare in questo tormento, in questo corpo che, come si vedrà, sembra il vero terreno della contesa.

Il tormento di un’anima prigioniera: questa è l’idea che si fa strada nell’occhio dello spettatore, puntato verso la condanna nel quadrilatero, ma soprattutto sulla qualità del gesto della danzatrice che, seppur informata solo attraverso indicazioni verbali dalla coreografa (nel solco della sua lunga ricerca sulla parola per la danza, sulla sottrazione del corpo del maestro per il danzatore), è segnata dallo stigma del raccogliersi e scattare, dello scrollarsi di dosso una tensione, una linea di movimento, attraverso improvvise rivoluzioni di verso. Quel movimento che tante volte abbiamo conosciuto incorporato proprio in Paola Bianchi.

Mentre le luci hanno continue, ammalianti mutazioni, che riescono a rendere avvertibile la doppia natura di spazio e corpo, quest’ultimo subisce la tentazione dell’uscita dal quadrilatero attraverso continui passaggi tra concavità e convessità, tra lo spingere il movimento e l’esserne tirato, tra il richiamarlo a sé e l’esserne respinto, e poi a tradimento posseduto, in una lotta straziante ma condotta con la levità di un duello in punta di fioretto.
Ora uno stretto spiraglio di luce si sostituisce al quadrilatero, e l’esistenza del corpo e del movimento è nuovamente ridotta, limitata a quella porzione di palco, senza forzature nella partitura gestuale, con una semplice – ma non per questo meno drammatica – ridefinizione dei dati spaziali. Poi torna ad ampliarsi la luce, e il suono (di Fabrizio Modonese Palumbo) emerge dal fondo del lavoro, facendosi materia, spazializzandosi in un’oscillazione destra-sinistra sempre più evidente, così come si concretizza la sua natura segmentandosi, facendosi grana sempre più agglomerata, fino a sembrare veramente come un rombo di motore, ora di qua, ora di là, ora di qua – buio.
[ … ] 



Testimonianze ricerca azioni 2021: essere e (è) divenire
Matteo Brighenti - 3 dicembre 2021 - paneacquaculture.net

[ … ] In Other Otherness Barbara Carulli danza una richiesta di aiuto e di ascolto, prima di tutto a sé stessa, per la sua fragilità ribelle. È un animale ferito che non si arrende, che cerca un volo anche senza ali, un piacere troppo a lungo negato.
Costruito sullo spazio furente e instabile de La zattera della Medusa di Théodore Géricault, il solo nasce dalla trasmissione via audio da parte di Paola Bianchi delle descrizioni di alcune posture presenti nel suo O_N, parte del progetto ELP | altre memorie, anch’esso in cartellone al Festival.
Perciò, la costruzione del lavoro ha escluso la presenza in sala prove della coreografa come modello da seguire e imitare. L’obiettivo di una simile trasmissione è trovare il modo di essere in scena, più che fare, o peggio rifare. È la stessa Bianchi a rimarcarlo con forza nel notevole film documentario su di lei e con lei appartenente al ciclo La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro diretto da Tafuri e Beronio e prodotto da Teatro Akropolis e AkropolisLibri (gli altri due realizzati finora sono dedicati a Massimiliano Civica e a Carlo Sini).
Una gonna di tulle, due ginocchiere, una striscia di nastro sui capezzoli, Carulli si rivela un taglio di luce gettato su un viaggio distorto, elettrificato. Ci guarda di traverso e poi si ascolta guardarci, mentre risuona l’incombere come di elicottero sulla sua testa e sulle nostre.
Other Otherness è un raccoglimento a scavarsi dentro, un rannicchiamento che cova una rivolta. E quando esplode, niente si salva dal fuoco liberatorio dello scontro.
[ … ] 




NESSUN AMICO AL TRAMONTO
Enrico Pastore - 12 aprile 2021 ilpickwick.it

Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.
In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.
Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.
[ … ] un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.
Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.




"Coprifuoco!" E' nato il teatro digitale
Walter Porcedda - 20 marzo 2021 glistatigenerali.com

[...] E’ il caso ad esempio di “O_N” della coreografa Paola Bianchi che ha messo in scena come spettacolo in video un potente atto unico dalla trama ben innestata nel flusso di ricerca delle sue opere più recenti, vedi lo straordinario “Energheia” , ancorandolo al progetto ELP (la danzatrice sta lavorando sulla memoria visiva su persone con background migratorio in Italia, come avvenne nel primo step di “Energheia” con cui ha costituito un primo importante archivio “retinico”). Incalzata dai suoni e dalle musiche del musicista creativo, inventore di scenografie sonore, Fabrizio Modenese Palumbo, e dal preciso disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero, Bianchi, viene inizialmente incapsulata in uno stretto cono di luce dentro il quale ingaggia una lotta nervosa per varcare l’oscurità. Concentrando le azioni in una gestualità minima fatta di impercettibili scarti emozionali, la performer, ripresa in primissimi piani e campi medio lunghi, alterna tentativi di fuga in avanti a pose plastiche di elegante armonia che un attimo successivo, con un velocissimi strappi, vanno in frantumi. Sono le cento memorie di un corpo le cui invisibili cicatrici riemergono da una lotta aspra, giocata sul filo. Una sfida continua e senza soste con il corpo proteso ad offrire e chiedere amore mentre le braccia si rinchiudono lentamente come petali di un fiore al tramonto. Corpo al suolo che si dibatte in un cerchio, prigioniero come un uccello in gabbia che cerca la fuga. Rabbia, dolore, energia sul punto di deflagrare: e voglia di libertà.
Paola Bianchi, oltre a “O_N” ha portato anche il disegno di “Other OtherNess” primo movimento danzato e restituito in video da Barbara Carulli e l’installazione “NoPolis” spazio visivo e acustico “in cui la polis classicamente definita come sfera politica, perde la sua essenza”: abbigliata di rosso, all’interno di un quadrato, Bianchi entra progressivamente in una dimensione rarefatta, mentre i rumori di traffico urbano vengono sostituiti da una musica ovattata segnata da bassi profondi, in sintonia coi movimenti della danzatrice, un corpo liquido in trance. [...]




O_N DI PAOLA BIANCHI, O CIÒ CHE DIVENTA. APPUNTI MINIMI DI TEATRO RIPRESO
Carlo Lei - 19 dicembre 2020 klpteatro.it

Se il teatro di persona è ora scomparso, dato che impossibile è la comunità dei corpi, perché mai dovrebbe continuare a esistere la critica teatrale nel senso tradizionale di sguardo e analisi?
Certo, la sua crisi non è cosa di oggi. Ma ora, con l’oggetto-spettacolo privato del suo repertorio di significanti e strappato dalla sua teca statutaria, per quanto febbrili e inquieti possano esser stati, ci si trova tra le mani un prodotto che rotola come su un nastro trasportatore. Parte dal complesso laboratorio dell’artista e arriva a quello del comunicatore (una sorta di nuovo dramaturg, che deciderà in quale forma renderlo fruibile, nel caso odierno si tratta di Roberta Nicolai, come dicevamo qui). Passa poi a chi materialmente lo tradurrà nel nuovo linguaggio, video, streaming (e oggi è Michele Cinque di Lazy Film con la sua troupe) e finisce nel luogo-non-luogo impossibile da divinare: la cucina, lo studio, il sedile del passeggero della macchina in movimento di chi lo guarderà.
È anch’esso un laboratorio, per quanto assai sporco, in cui imprevedibili ingredienti si mescolano al materiale in provetta: il suono di un clacson, un figlio che rovescia il piatto della minestra, la batteria che si scarica, lo sguardo del tuo compagno che si annoia, e la colpa è tua.
In quale tra questi laboratori deve porsi il critico?
Abbiamo provato a entrare nel terzo. Nella settimana in cui Teatri di Vetro 2020 va in streaming differito su YouTube, il Teatro India è diventato un set – cioè sembra essere tornato a essere fabbrica. Silenzioso il cortile esterno, lunghissimi e deserti i corridoi, ovattate ma febbrili, nelle sale, le parole e i movimenti: fuori la città è contratta in un crampo di traffico ininterrotto; dentro, il corpo di Paola Bianchi, seduta con la testa nelle ginocchia, è incapsulato in un cono di luce.
Attorno a esso, come attorno a una scultura che gli installatori vadano collocando nella giusta angolazione, occhi attenti, sciamano direttore della fotografia, regista, operatori. Più distaccato, significativamente, il gruppo dei teatranti, e il tavolo della regia audio-luci dal vivo.
Oggi si lavora su “O_N”, uno dei due contributi di Bianchi alla 14^ edizione del festival romano: il suo lungo progetto “ELP” si incontra ora con posture provenienti da culture differenti. La mattina è stato fatto il montaggio vero e proprio (vedi, anche il lessico si sdoppia?, montaggio teatrale, si intende, non montaggio video), i puntamenti; nel pomeriggio, dopo una breve prova tecnica, si gira.
Le camere sono quattro, due fisse, una steadycam e una dall’alto, sull’americana, a piombo nell’occhio di quel cono di luce. (Guarda quel polpaccio nella Canon: c’è più magenta che nella Sony. Abbassalo).
La regia sarà live, niente montaggi in postproduzione, ma un indirizzo di massima occorre darlo.
Ci si chiede: quanto usare la steady, la camera mobile. Il corpo di Bianchi si muoverà nello spazio di un cerchio dal raggio di un paio di metri. La fruizione pensata per il teatro è frontale, ma la coreografia si svolgerà in un quasi costante moto di avvitamento/svitamento su un asse. È possibile restituire questo con una camera fissa? Sì, qualcuno pensa; altri dicono di no, è necessario smuovere il quadro, restituirgli una spettacolarità più evidente, «più interessante», andare sui dettagli, staccarlo con più evidenza dal fondo nero, e quant’è nero il nero di uno schermo, quant’è anzi diversa la nozione di “nero” da quella di “buio”, dove la prima è presenza, la seconda assenza.
La steady deve muoversi, bene, ma lentamente, per carità: che paura che fa l’idea di una vertigine mucciniana!
Questa piccola querelle ci ricorda due problemi: il primo, quello dello spettatore.
Quanto può essere utile la conservazione della staticità della posizione dello spettatore in una traduzione video? Se essa richiede una rimessa in discussione del punto di vista, ciò corrisponde a ritoccare radicalmente lo statuto del ricevente, interviene anche nel messaggio.
Il secondo problema è il ritmo: come mantenere lo stesso ritmo di una coreografia nella sua ripresa? In che modo i movimenti di macchina e gli stacchi da una camera all’altra interferiscono nel dispiegarsi nel tempo della rappresentazione?
“O_N”, poi, non ha un rapporto meramente ritmico con la traccia musicale. Dopo una voce e un breve silenzio, lo spettacolo lavora sopra un suono continuo ma internamente ribattente e saturato, che infine muta in una sorta di gracchio da contatore Geiger.
È una natura di non-scansione che impedisce alla regia di appigliarvisi come a un filo conduttore.
L’audio, poi: i volumi. Se si possono stabilire con precisione e a priori nel caso del live teatrale, come è possibile riportarli ai device di ciascuno spettatore domestico? E, soprattutto, come si può suggerire il rapporto di equilibrio che devono avere nel rapporto con la parte visiva?
Basti pensare al precedente lavoro di Paola Bianchi, “Energheia”, visto a Teatri di Vetro 2019: sarebbe stato impossibile convogliare lo spaventoso muro sonoro delle chitarre di Fabrizio Modonese Palumbo, che letteralmente schiacciava lo spettatore.
La questione è sempre la stessa: che si parli di immagine, che si parli di suono, in quali termini è possibile mantenersi al di qua del crinale che separa il teatro dal cinema, i loro due linguaggi, inventare un ibrido valido?
Ma intanto, dopo le brevi sigarette della pausa, la ripresa parte e si ferma; qualcuno canta in una sala attigua; poi passa un motorino incredibilmente vicino (ma dove?), e un nutrito mazzo di chiavi viene inopinatamente manipolato, da qualche parte. Via di nuovo, è quella buona.
Il piccolo corpo di Paola Bianchi esordisce con improvvisa dinamicità sotto il suo cono di luce, quasi facendo dimenticare quel suo segno cinetico tipico, inconfondibile, di vibrazione interna. Ma poi, a un minimo cambio di luce (il cerchio si sfuma) lo riconosciamo: qualcosa che sembra un dissidio tra volontà, forma e direzione rompe il corpo, ne interrompe la continuità…
Qui, proprio qui, occorre fermarsi.
Se lo spettacolo è diventato quest’altra cosa, quest’altro ibrido ancora irrisolto, forse la voce più adatta a renderne conto era quella del racconto. L’analisi deve arrestarsi precisamente alle soglie della fruizione.
Nella vostra cucina, nel vostro salotto, con il brillio del vostro albero di Natale e il TG1 altissimo nell’appartamento dei vicini duri d’orecchio, vedetelo voi.
Stasera alle 20, qui.

L’attrito del movimento: Paola Bianchi e Teatro Akropolis [ Ipercorpo #3 ]
Francesco Brusa - 28/09/2020 altrevelocita.it
Non esiste attimo privo di tensione in O_N. Da sotto i capelli che le andranno a coprire il viso per tutta la rappresentazione, Paola Bianchi ci scruta con ancora maggiore determinazione di quella che avrebbe se i suoi occhi fossero invece visibili, non “schermati” dalle ciocche bianche. È come se fossimo portati a far convergere l’intensità che leggiamo nei movimenti del corpo verso lo sguardo della danzatrice, verso una sua “intenzionalità emotiva” che, però, nei fatti non ci è dato di leggere: «Passare dall’informe all’informe» è d’altronde la locuzione che la stessa coreografa e danzatrice torinese (ma attiva in Romagna da decenni) utilizza per sintetizzare la traiettoria del proprio lavoro. Vale a dire: non c’è volontà di lasciare traccia intellegibile, ma solo un passaggio da stato indefinito a un altro stato indefinito, concentrandosi semplicemente sul percorso li collega.
Eppure l’anteprima andata in scena nella terza giornata del festival Ipercorpo, se da una parte non offre alcuna frontalità visiva (non vediamo appunto mai in faccia la danzatrice, che peraltro continua a girare percorrendo un ampio cerchio sulla scena), dall’altra è pur sempre una proposta estremamente rifinita, coerente in se stessa. Possiede una forma, magari non come disegno e volontà drammaturgica che eccede il corpo della performer ma nello sviluppo intrinseco dei suoi movimenti, nella regolare sovrapponibilità di ciascun momento con ciascun altro. O_N, cioè, sembra rispondere a un principio compositivo (che la peculiare poetica di Paola Bianchi cerca di spingere nella carne anziché in un pensiero esterno) ben preciso: la negazione radicale di ogni smussatura o fluidità, per modulare il gesto in una maniera che sia il più possibile “quadrata”, rettilinea. Il corpo della danzatrice si piega e ripiega come fosse un origami, al massimo si “accartoccia” su se stesso ma mai e poi mai si sviluppa entro delle curve o delle traiettorie “dolci”. Tutto è sforzo, sebbene ponderato e omogeneo. O meglio, tutto è “contrasto”, frizione con la gravità, è attrito (concetto quest’ultimo centrale nella pratica della coreografa).
Le uniche due linee circolari sono date da un fascio di luce che, per una breve parte dello spettacolo, disegna appunto un cerchio per terra e dallo spostamento della danzatrice, che si muove in modo circolare come fosse su dei binari. Segni a indicare che, tutto sommato, (r)esistono delle strutture di riferimento, schematismi percettivi: non c’è nessuno sviluppo propriamente narrativo, ma l’orbitare continuo attorno a un centro restituisce comunque l’idea del tempo che passa, di uno sfondo immobile su cui la performance scorre.
Si tratta di una proposta molto articolata al suo interno, estremamente definita e lineare. La performance di Paola Bianchi giunge dal punto iniziale a quello finale come se stessimo attraversando l’ingranaggio di un orologio, che cambia in continuazione la qualità e le caratteristiche del proprio battito ma è che è costante nello scandire un preciso ritmo di progressione. Anche la musica, pur sviluppandosi in un andirivieni di accrescimento e scioglimento della tensione, permane tutto sommato sui medesimi timbri e sulle medesime sonorità, che a tratti sembrano richiamare lo scricchiolio degli arti, l’incrinarsi di oggetti. Siamo dentro territori che la coreografa e danzatrice esplora da tempo: una delle sue pratiche di composizione è, infatti, quella di costringere il proprio corpo con delle fasce di contenimento, in modo da riuscire a lavorare sulla “contro-pressione motoria”, su una qualità del movimento che è innanzitutto scatto, reazione a spinte e influenze che derivano dall’esterno. Non c’è interazione col pubblico, c’è – al contrario – una “calcolata istintualità” che pare riguardare solo ed esclusivamente il soggetto in scena, la sua personale “lotta” di posizionamento nello spazio, la faticosa costruzione di un’identità fisica che sappia prescindere dalle immagini e dalle stratificazioni del corpo.
Quasi non ci fosse soluzione di continuità, dopo lo spettacolo è appunto il corpo di Paola Bianchi e la sua poetica tutta che si traslano in altri formati, che diventano immagini-in-movimento (per utilizzare la definizione di Deleuze del cinema): La parte maledetta è un ciclo di documentari realizzati da Teatro Akropolis e AkropolisLibri, diretti da Clemente Tafuri e David Beronio, in cui la compagnia genovese cerca di porre sotto la particolare lente di osservazione della videocamera altri artisti e artiste con cui sente un’affinità di ricerca. La prima “tappa”, presentata a Ipercorpo, è appunto dedicata al lavoro e alla personalità della coreografa e danzatrice piemontese, al suo percorso artistico e a quanto la sua biografia (o, a un livello forse ancora più profondo, la rielaborazione della biografia in memoria) sia andata a influenzare nel corso del tempo le attitudini e le “inquietudini” in scena. Teatro Akropolis prova a costruire un’intima prossimità con il soggetto della propria esplorazione cinematografica, prossimità tesa a svelarne non tanto le ragioni ultime di alcune scelte artistiche, le progettualità poetiche, quanto piuttosto i compositi e personalissimi contesti in cui tali scelte vengono intraprese. Oltre agli spezzoni tratti da alcuni degli spettacoli della sua lunga carriera, infatti, le inquadrature del primo documentario de La parte maledetta (nella quasi totalità girate all’interno di abitazioni private) sembrano “incastonare” (l’immagine del) volto e (l’immagine del) corpo di Paola Bianchi dentro stanze che sono già ambienti, dentro particolari di paesaggio (un giardino, etc…) che diventano già, in qualche modo, “dimensioni di ispirazione artistica”.
In un certo senso – e forse proprio per “smarcarsi” dal classico meccanismo da documentario giornalistico – la compagnia genovese, invece di raccontare i retroscena di quanto accade sul palco, prova a trasformare quanto è fuori dalla scena in un piccolo avvenimento teatrale anch’esso. O, perlomeno, a metterne in risalto gli elementi di teatralità, per quanto poi il carattere generale del ritratto che ne esce è certamente improntato a una qualità davvero molto intima e per certi versi toccante dello sguardo. Nessuna “morbosità euristica”, nessun marcato intento di “scavo”: piuttosto, un approccio semplice e delicato che si rivela pronto a lasciarsi indirizzare dalle volontà di condivisione del soggetto “intervistato”. Quasi un ri-negoziamento continuo e aperto fra compagnia/regista e attrice/coreografa di come e con quali ritmi dovrà avvenire – dentro alla fantasmagorica simultaneità della celluloide – la trasmutazione della realtà in immagine, del corpo in “sedimento”. A provare a pensarli entro un unico arco percettivo, l’anteprima O_N e il documentario de La parte maledetta compongono – nella terza giornata di Ipercorpo – un dittico dissonante ma complementare, in cui le rigorose spigolosità coreografiche dello spettacolo dal vivo trovano il proprio racconto più smussato e “levigato” su pellicola. Corpo e anti-corpo, dunque: due necessari momenti in cui “avviene” la danza.


Visibile/udibile. La sinestesia del gesto in Paola Bianchi
ELP è il progetto di Paola Bianchi di cui il solo Enérgheia è tappa finale esperita durante la cinquantesima edizione di Santarcangelo Festival. Una riflessione e racconto a quattro mani.
Lucia Medri / Enrico Piergiacomi - 1 agosto 2020 - teatroecritica.net
Oltre che uno scavo sul rapporto tra moto e immagine, quindi un affondo sull’aspetto visibile della danza, il progetto ELP di Paola Bianchi è anche un’indagine sul nesso suono-movimento. Spesso l’elemento sonoro è considerato un accompagnamento all’azione coreografica, o un supporto per la costruzione di un ritmo. La danza non è la sonorità né la musica sul piano sia logico che ontologico, bensì procede parallelamente a queste. Bianchi cerca invece una fusione tra queste due dimensioni, fino a rendere del tutto inscindibili il visibile e l’udibile: il corpo che solletica gli occhi e il suono che stimola l’orecchio. Per chiarire i termini della questione, possiamo ispirarci a ENÉRGHEIA [ unplugged ] studio sull’anatomia e sulla vicinanza dello sguardo, una coreografia di pelle, una poetica del corpo muto. Si tratta di uno degli ultimi lavori di Bianchi, facente parte del macro progetto ELP e forse il più programmatico a livello estetico e concettuale, approdato nel cartellone del cinquantesimo anniversario di Santarcangelo Festival e presentato nel suggestivo Nellospazio, area del Parco Baden Powell. Il termine enérgheia è una parola greca che soprattutto in Aristotele indica l’attività, ossia un movimento dove non si è in grado di distinguere il soggetto e il suo oggetto, il processo e il risultato, il mezzo e il fine. Essa si distingue dall’azione in cui invece queste demarcazioni sono operative. Così, la costruzione di una casa non è un’enérgheia, perché il costruttore è diverso dalla casa, il movimento del costruire non coincide con l’edificio costruito, i mattoni non sono la forma del palazzo. Sono invece attività sia la danza che l’ascolto nelle loro forme più semplici, quasi nude. Da un lato, infatti, il corpo del danzatore e il suo movimento non sono diversi dalla danza, come invece lo sono il costruttore e l’atto del costruire dalla casa costruita. Essi sono insieme la forma e la materia dell’attività coreografica. Dall’altro lato, l’ascolto è un’attività in quanto inizia e termina con l’atto di ascoltare stesso. Quando un suono arriva all’orecchio, esso determina solo un’affezione sonora e non un qualcosa di diverso da questa.
Si potrebbe obiettare che anche la danza e l’ascolto producono qualcosa di diverso da sé: per esempio, un altro movimento, un’emozione, un pensiero. Il punto è però che questi sono effetti indiretti e derivati. Il problema è infatti capire quale sia il fine intrinseco dell’attività considerata. La danza in sé mira solo al movimento organizzato, l’ascolto in sé è finalizzato solo a ricevere i suoni. Se l’una e l’altro determinano un effetto terzo, è perché abbandonano il loro fine intrinseco e si pongono come mezzi per altri fini. Il medesimo discorso vale, del resto, anche per l’azione di costruire. Una bella casa può produrre emozioni e pensieri, ma non diremmo che il fine del costruttore sia emozionare e far pensare. Un progetto edilizio che mirasse a ciò uscirebbe dai confini della tecnica della costruzione
Ora, però, quando danza e suono/ascolto si combinano, accade di solito che venga rotta l’unità tra soggetto e oggetto, tra processo e prodotto. Avviene, infatti, che esse fungano appunto da mezzi per costruire un terzo elemento, in questo caso uno spettacolo. Dall’attività coreografica, dove la danza non produce altro che sé stessa, si passa così all’azione coreografica, in cui la danza agisce in modo simile alla tecnica del costruire: produce una forma attraverso il movimento. Se dal punto di vista estetico la dissociazione non crea alcun problema, anzi può portare a prodotti belli e godibili, essa comporta tuttavia una perdita di purezza. Il movimento coreografico che si fa veicolo di significazione o mezzo formale non è più un movimento puro che trova il fine in se stesso, ma si fa mezzo per altro. Il danzatore si trova come dissociato: non coincide completamente con il movimento e con il ritmo della creazione, ma rappresenta un tramite per una creazione e per un ritmo.
La ricerca coreografica di Paola Bianchi va allora forse verso la ricomposizione di questo infranto. La danza non si lascia più accompagnare dal suono, ma si trasforma in una diretta prosecuzione del suono – per così dire, è l’incarnazione visibile di ciò che in sé sarebbe soltanto udibile. Sempre in Enérgheia, questo discorso in apparenza astratto trova la sua realizzazione concreta. La danza di Bianchi risponde infatti qui direttamente agli stimoli sonori che il compositore Fabrizio Modonese Palumbo esegue dal vivo, rendendo così la sua attività organica alla sonorità e non un mezzo al servizio o che proceda in parallelo. L’esito che ne deriva è il contraltare di quella del danzatore “dissociato” di cui sopra. La danza abbandona ogni pretesa formale e di risultato/prodotto, si fa attività pura che trova in sé sia la fine che l’inizio. Ciò manifesta un insieme di forze che infrangono la barriera che di norma separa il movimento dal suono, la vista dall’udito.
Quella dell’ascolto è una prassi che ha contraddistinto inoltre il rapporto di fiducia e confronto intessuto durante la fase processuale con la curatrice e organizzatrice Roberta Nicolai: «Il progetto ELP, nella sua semplicità, rivela una complessità che necessita cura, confronto assiduo. Ed è seguendo la natura propria del progetto che il binomio vita/teatro ha oscillato tra me e Roberta generando un’altalena di riflessioni, un dialogo continuo a volte ossessivo. Ogni dubbio, ogni pensiero si è ancorato a un movimento di questo oggetto che possiamo definire relazione, un andare e venire del tempo della vita e della scena, del luogo che apre le porte all’essere nella scena».
Paola Bianchi costruisce così, in una parola, una sinestesia: la fusione tra il visibile e l’udibile, tra memoria collettiva del gesto e la sua memoria individuale, incarnando quell’archivio fotografico raccolto al fine di dargli movimento e nuova energia al presente. Che forma ha infatti un suono, e che sonorità ha un movimento? Chi separa i due livelli, non sarà mai in grado di percepirlo. Chi – come Bianchi – tenta di unirli, o almeno di ridurre l’abisso che li separa, raggiunge una condizione in cui i sensi sono massimamente allertati, o meglio sono in attività perfetta. Anche questi sono un soggetto che coincide completamente col loro oggetto.
Santarcangelo Festival – luglio 2020



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Il distanziamento sociale del danzatore
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Anche lo spettacolo di Paola Bianchi NRG, ridefinito appositamente per gli spazi all’aperto della rassegna, è in realtà uno spettacolo di repertorio con il titolo Energheia. E anche questo dialoga con il tema delle relazioni e delle distanze. In questo caso, più dello spettacolo assume peso il processo creativo, durante il quale l’artista ha ricomposto nel proprio corpo le memorie visive di una quarantina di persone coinvolte. Secondo quanto dichiarato: “A ognuno/a ho chiesto quali fossero le immagini pubbliche impresse nella propria retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella memoria visiva. Immagini simbolo legate ad avvenimenti storici e a personaggi che hanno segnato la cultura occidentale”. E così, “Ogni immagine è entrata nel mio corpo deformandolo, modificandone le posture e le tensioni fino a generare nuovi stati del corpo – il mio corpo è diventato archivio esso stesso di quelle immagini”. Il gioco delle distanze innerva profondamente la genesi dello spettacolo: dall’evocazione della memoria individuale alla riproposizione di quelle immagini su un altro corpo. L’archivio di cui parla Bianchi è non solo un archivio di immagini e movimenti, ma anche un archivio di distanze, l’aspirazione a colmare la memoria (e dunque l’assenza) attraverso una proiezione. Che a sua volta arriva al pubblico, ulteriormente “distante”, come in un esercizio platonico sulla realtà e l’idea.
La performer snocciola movimenti nei quali di volta in volta si riconoscono labili appigli a immagini più o meno condivise, o meglio ad atmosfere e umori, con il sostegno dell’incalzante e straniante musica dal vivo di Fabrizio Modonese Palumbo. La vicinanza dello sguardo degli spettatori, disposti a ring attorno alla danzatrice, coglie i dettagli del movimento, e al tempo stesso sancisce un’ulteriore distanza di quei segni dall’esperienza emotiva. Come se NRG dichiarasse l’impossibilità della trasmissione dell’esperienza e l’inevitabilità della sua reinvenzione: dall’esperienza vissuta dal testimone originario si passa a quella assorbita e reinventata da Paola Bianchi nel suo corpo e con il suo corpo (e già questo trasfigura l’originale nel simbolico), e infine si approda a quella percepita dallo spettatore, che segue i movimenti come fossero tracce di una Stele di Rosetta da decifrare ma senza un corrispettivo linguistico sconosciuto. Con tutto il fascino che ne consegue, quello di una danza più misterica che misteriosa, come evocata da un altrove lontanissimo, nel quale il corpo della performer ritorna alla fine, regredendo lentamente mentre i battiti musicali si attenuano cupi e ipnotici molto a lungo, come a chiudere un sogno.
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ELOGIO DEL CAMBIAMENTO, IL CASO MAJAKOVSKIJ E LA DANZA DI PAOLA BIANCHI
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Così, citando solo un esempio della programmazione che, come già sottolineato, è ampia e variegata, la coreografa Paola Bianchi presenta alcuni tasselli del progetto ELP – Ethos, Logos, Pathos, un’indagine sulla trasmissione della danza attraverso la parola descrittiva e, di conseguenza, dei corpi che la agiscono. ELP prende il via da un archivio retinico-mnemonico che la coreografa ha composto con l’aiuto di un gruppo eterogeneo di persone, cui ha chiesto la condivisione di “immagini pubbliche che si sono impresse nella tua retina e che anche dopo molto tempo continuano a essere vive nella tua memoria visiva”. Le posture estrapolate da una selezione di queste immagini vanno a comporre una “coreografia senza corpo”, da ascoltare, incorporare e infine incarnare. L’“audiodramma coreografico” in tal modo sviluppato parte dall’idea che “la danza – nelle parole dell’artista – è come una fotografia, la coreografia è lo sviluppo di questa cosa nello spazio e appartiene a chi la incarna”. La trasmissione della danza attuata con ELP presuppone quindi l’annullamento dell’ego della coreografa, l’esclusione del giudizio, per concentrarsi solo sui processi, unici e personalissimi, con cui il movimento viene incarnato. Con The undanced dance, primo tassello del progetto presentato a TDV, agli spettatori viene offerta la possibilità di sperimentare sulla propria pelle l’azione proposta. Energheia è invece un solo della stessa Paola Bianchi, fulcro del progetto in cui la coreografa per prima si immerge nelle immagini che compongono ELP, rendendole corpo e, così facendo, si trasforma in archivio vivente. Infine, a TDV si assiste al primo studio di Ekhfrasis, spettacolo che debutterà nella prossima edizione del festival di Castiglioncello. Qui l’archivio, sempre tramite la parola descrittiva, che è precisa e concreta, viene consegnato ai corpi di dieci giovani danzatrici e danzatori. Cominciando ancora una volta da un’azione interiore e individuale, il lavoro con i professionisti scava ulteriormente nelle possibilità di incarnazione della danza. I movimenti dettati dall’archivio vengono interpretati personalmente da ogni performer, ma la comunicazione coreografica con gli altri crea una struttura estetica e collettiva, che anche in questa fase embrionale mostra grande potenzialità. La trasmissione passa dall’ascolto della parola ai corpi in scena e tramite questi si propaga nella sala, continuando così a evolversi e incarnarsi nello sguardo e nel corpo degli spettatori.
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Teatrosofia #101. Aristotele e la scena in movimento, in azione, in attività
La scena è vissuta sregolatamente, a volte ignorata nei suoi spazi più scontati e accesa nelle periferie, percorsa con agogiche imperscrutabili e apparentemente aliene allo sviluppo, per accostamenti, che è quasi una suite, un rondò imprevedibile.
I movimenti, agglutinati in significanti di ardua decifrazione, ora spezzati e innaturali, al limite dello spasmo, ora diluiti in lunghi momenti di stasi, di atti scopertamente mimetici (i “passi felini”, il pugno chiuso alzato e il capo curvo), sono imprevedibili, una lontana eco – pur nella loro tensione – di qualcosa di intimo, spaventosamente più forte, occulto, che pare lui guardare noi, non viceversa. Eppure, tutto ciò ha una chiave di lettura in quelle parole che descrivono i movimenti, e che troveranno un ulteriore corpo in cui incarnarsi con “Ekphrasis”.

CORPO, SPAZIO, RELAZIONI: AL FESTIVAL TESTIMONIANZE RICERCA AZIONI DI GENOVA

VERBO PRESENTE
A GENOVA SPACCATA IN DUE IL BARICENTRO DEL TEATRO AKROPOLIS
Walter Porcedda glistatigenerali.com - 26 novembre 2018
[…] E rigore, energia e sapienza teatrale si rintracciano anche in “Verbo presente” potente atto coreografico unico di Paola Bianchi, artista danzatrice e coreografa indipendente, tra i migliori talenti della danza contemporanea italiana. Autrice di un lavoro che ha pochi uguali, sembra avere in comune con Akropolis una affine concezione sacrale del rappresentare, fatta di generosità e precisione scenica quanto una rutilante capacità di improvvisare su un canovaccio nobile d’attore: superando la quarta parete, esce dal guscio protettivo di schermi e veli che mettono fuori fuoco una straripante energia. Ad attivare il corpo di Paola Bianchi, che attraversa come una scheggia il palcoscenico è la musica, composta ed eseguita dal vivo da Fabrizio Modenese Palumbo, musicista di frizzante creatività, al violino elettrificato e ai live electronics (il tutto coadiuvato scenograficamente dalle preziose architetture del light designer Paolo Pollo Rodighiero). Quello che va in scena è un contatto forte e rabbioso, addolorato ed erotico tra suono e corpo che danza senza risparmio: prende alla gola e costringe alla visione. Impossibile staccare o vagare con lo sguardo, che, al contrario, resta incollato alle evoluzioni “au bout du souffle” di questa formidabile performer.
E’ danza, è teatro, è movimento puro. Un corpo che vola ribelle sulle brutture del mondo, ridefinendo spazi ed emozioni mentre la luce progressivamente disegna inediti territori da esplorare sul corpo e nel buio. E ci sono attimi in cui Paola Bianchi mostra una rara abilità nel mettere in fila piccole e progressive tensioni amplificandole in gestualità uniche, suggerendo una danza del profondo che evoca conflitti tumultuosi e primordiali quanto imprevedibili e imprevisti distacchi zen. […]



OPSÌA
CRISALIDE: L’ESPERIENZA SELVAGGIA
Enrico Piergiacomi DOPPIOZERO - 20 settembre 2018
Quando un vulcano ha le doglie o è scosso da un’attività sismica, non si sa bene che cosa potrà liberare. Potrebbe uscirne dell’innocuo fumo, eruttare una colata lavica, fiottare della cenere distruttrice, o aprirsi una crepa nella terra che rivela una miniera di oro e argento. Nei versi dell’Ars poetica, Orazio usa questa similitudine del vulcano che ha le doglie per riferirsi, in forma ironica, ai risultati modesti di un poeta che promette qualcosa di grande. Egli proclama un’opera magnifica, ma partorisce un topolino: e tutti ridono. Abbandonando l’ironia oraziana, potremmo portare all’estremo l’analogia tra il vulcano e il poeta, supponendo che il secondo è ambiguo come il primo. Quando i poeti hanno le doglie, possono liberare versi e pensieri vacui come il fumo, preziosi come l’oro e l’argento, o devastanti come la lava e la cenere ardente.
Se il teatro è una forma di poesia, ci si potrebbe allora forse legittimamente domandare quanto segue. Anche il teatro è come una montagna che ha le doglie? E se sì, che cosa potrebbe liberare? Qualcosa di grande e arricchente e prezioso, o di piccolo e distruttore e miserabile?

Mi pare che questa domanda costituisca uno dei temi centrali che ispira sotterraneamente quattro degli spettacoli della 25.ima edizione del festival Crisalide, dal titolo L’esperienza selvaggia, andati in scena a Forlì il 14-15 settembre 2018. Mi riferisco a Macbetto, o la chimica della materia di Teatro delle Albe / Masque Teatro / Menoventi, a Luce di Masque Teatro, a Opsìa di Paola Bianchi, a Studio sul mito di Demetra di Teatro Akropolis. Parlando in termini molto generali, infatti, ciascuno di questi spettacoli descrive una sorta di movimento “dal dentro al fuori”. Essi presentano il teatro come un processo di liberazione di un qualcosa che è nascosto nella nostra interiorità, o nel nostro profondo. Il problema è capire che cosa sia questo “qualcosa”. Lo scopo di questo breve intervento è esaminare in estrema sintesi questo problema e parlare al contempo delle quattro proposte artistiche viste/ascoltate a Crisalide.
Prima di procedere, occorre tuttavia fare una distinzione dialettica e metodologica. Il concetto di “liberazione” o del moto dal dentro al fuori non è univoco, perché raccoglie in sé un insieme di fenomeni tra loro molto diversi. Senza entrare in troppi dettagli, perché andremmo altrimenti troppo lontano e complicheremmo inutilmente la questione, noto in questa sede solo che un processo liberatorio può essere o di tipo “grezzo”, o di tipo “elaborato”. Il primo indica un qualunque moto di rilascio di qualcosa in forma non trasformata, né rielaborata. Prendiamo ad esempio una spugna da doccia. Questo oggetto assorbe l’acqua, lo sporco che si trovava sul nostro corpo e il detergente usato per lavarsi. Quando la spugna viene strizzata, essa libera esclusivamente queste tre sostanze.

Non si dà, in altri termini, il rilascio di un loro aggregato o di un loro distillato, quindi un’entità che prima non c’era. Di contro, un processo di tipo “elaborato” libera un qualcosa di composito o di più asciutto dagli oggetti e dalle esperienze da cui si era partiti. Possiamo riportare entro questa classe la gran parte dei nostri accadimenti fisiologici e mentali. Il cibo viene assunto dal nostro organismo e raccolto in parte in nutrimento, in parte in escremento, dunque in due aggregati più piccoli e diversi dall’alimento ingerito. O ancora, le informazioni raccolte tramite libri o altri supporti vengono trasformate in nessi, idee, pensieri che le fonti di partenza o non contenevano, o non esplicitavano. Un processo di tipo “elaborato” libera allora qualcosa di diverso e non di identico rispetto alle cose da cui si era partiti.

Ora, credo si possa escludere che il teatro attui un processo di liberazione di tipo grezzo. Un poeta o artista performativo trasforma ed elabora sempre la realtà da cui parte, persino nei casi in si colloca in una prospettiva iper-realistica, vale a dire in cui ambisce a dare un’esatta replica del reale e ad annullare il rapporto originale/copia – tema peraltro accennato nella breve ma limpida presentazione di Simone Azzoni del suo libro Lo sguardo della gallina, svoltosi sempre nella 25.ima edizione di Crisalide. Se anche un attore dovesse davvero riuscire nell’intento di assumere le sembianze e i caratteri e altre qualità della persona o cosa o evento che imita, sarebbe comunque ancora possibile distinguere che questa è la “realtà reale” e questa la “realtà imitata”, che sono identiche in tutto meno che, appunto, nella loro essenza più intima. L’una è infatti naturale, l’altra artificiale. Nemmeno un dio sarebbe capace di compiere questo gesto iper-realista, ad esempio creando un “doppio” esattamente identico e sovrapposto alla cosa o alla persona o all’evento in questione, nel tempo come nello spazio. Persino in questo caso paradossale potremmo ancora distinguere con l’immaginazione o un atto di concettualizzazione l’originale e il doppione che è stato sovrapposto. (Se mai ce ne fosse bisogno, ciò costituisce incidentalmente una micro-argomentazione a sfavore dell’ipotesi – prossima all’indifendibile – dell’onnipotenza divina).

Questo discorso risulta ancora più plausibile se torniamo al problema del moto che va “dal dentro al fuori” da cui siamo partiti. Un poeta o artista performativo non libera sulla scena le sue visioni interiori così come sono state assorbite dall’esterno. Prendiamo a titolo di esempio il racconto della guerra delle Due Rose nell’Enrico VI o nel Riccardo III di Shakespeare. Queste drammaturgie non raccontano l’evento storico reale, pur rispettando spesso fedelmente la storia dell’Inghilterra, bensì riflettono una visione e un’interpretazione degli eventi filtrata dalla sensibilità o dall’intelletto dell’artista. Shakespeare non è come una spugna: non libera da sé solo quello che ha assorbito dall’esterno. Quel che questo poeta restituisce tramite il teatro ha poco a che fare con la storia e i suoi troppo umani avvenimenti.
Assodato allora, in forma certo troppo sintetica e inadeguata, che il teatro non attui un processo di liberazione di tipo “grezzo” e che per esclusione ne compi uno di genere “elaborato”, resta da capire che cosa esso liberi dalla nostra interiorità. Qui non è purtroppo possibile avere una prospettiva univoca e chiara. Gli artisti di teatro sembrano delineare in modi molto diversi, o addirittura contraddittori, la qualità del moto interiore che va dal dentro al fuori. Ciò emerge appunto dal lavoro delle compagnie dei quattro spettacoli di Crisalide che ora mi appresto a sintetizzare.

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Anche il lavoro Opsìa di Paola Bianchi è avvicinabile a Luce di Masque Teatro, se è sensato definire entrambe come una “poetica del corpo muto”.

L’artista parte da una tela di Andrea Chiesi e dal libro animanimale di Ivan Fantini per tradurre l’una come le altre in dei movimenti coreografici, o più materialisticamente in fremiti e coreografie della pelle. In questo senso, se immagini e parole sono definibili come traduzioni dell’interiorità di chi le ha dipinte / scritte, ci troviamo con Opsìa di fronte alla traduzione di una traduzione. Il corpo di Paola Bianchi libera attraverso il corpo quella che è l’essenza della tela di Chiesi e dei ragionamenti di Fantini. Se si volesse concepire anche il saggio che sto scrivendo come un quarto livello di traduzione, potremmo per inciso definire la critica come la “traduzione di una traduzione di una traduzione”, che cerca di cogliere il nocciolo della questione, più spesso senza riuscirci. Il fatto che in questo processo di traduzione dall’immagine e dalla parola al corpo si riesca a cogliere poco dell’originale da cui si era partiti va visto qui come un pregio, più che come un difetto. Il teatro è del resto un’arte della suggestione e della fascinazione misteriosa, in cui non è necessario comprendere tutto per accedere alla bellezza. Inoltre, sono davvero pochi – forse nessuno – i fatti della vita che si capiscono per davvero. L’arte bella di cui Opsìa è un esempio non fa che intensificare il mistero incomprensibile dell’esistenza.

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Basta uno sguardo superficiale alle prospettive così sintetizzate per notare che nessuna di loro è perfettamente armonizzabile con le altre. Non si può pensare, ad esempio, che il Macbetto e la sua idea che la poesia del teatro porti fuori alla vista il sangue o la merda dell’esistenza sia compatibile con la prospettiva del corpo generatore di elettricità di Luce e quello portatore di bellezza di Opsìa, o con il riso redentore dello Studio sul mito di Demetra di Akropolis. Né è possibile far combaciare alla perfezione i lavori di Paola Bianchi e di Masque Teatro, anche ammettendo che entrambi condividano la poetica dell’espressività del corpo muto. Vi è infatti almeno un’importante differenza tra le due creazioni. Paola Bianchi pensa che il solo corpo muto basti a dare un’espressione artistica alla nostra interiorità, a tradurre parole e immagini in moti della pelle, mentre Luce di Masque ritiene che questi richieda l’ausilio della macchina e l’intercettazione dei più sottili movimenti elettromagnetici della materia. Infinite altre differenze potrebbero poi essere rilevate, e questo ci mostra quanto ciascun lavoro artistico abita, per così dire, un suo mondo privato e irrelato agli altri.
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SCOREFORFIVE

OGNI SINGOLA DANZA E’ AUTENTICA E POTENTE, NEL MOMENTO IN CUI COLPISCE L’EMOZIONE DI CHI LA ACCOGLIE
Intervista di Silvia Lecceti UAU Magazine – 22 novembre 2017
In occasione della settimana contro la violenza sulle donne, sono state organizzate molte iniziative a Monsummano Terme, per riflettere e confrontarsi. Tra queste, il 25 novembre, Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, presso il teatro Y. Montad alle ore 21 si svolgerà l’esibizione e coreografia di Paola Bianchi, danzatrice e performer torinese, ad oggi tra le coreografe e danzatrici più interessanti del teatro. 
Di seguito la nostra intervista…
Iniziamo parlando dell’evento SCOREFORFIVE: di cosa si tratta e come è nata quest’idea? 
SCOREFORFIVE è una partitura per cinque danzatrici, cinque corpi che si incarnano in uno solo. L’intenzione era quella di creare una coreografia per e con cinque danzatrici, ma l’impossibilità di affrontare economicamente una produzione con molte persone sulla scena, mi ha portato a creare una coreografia per cinque interpreti riducendo l’organico alla mia sola presenza. Il lavoro si pone da un lato come una denuncia delle difficoltà legate alla situazione di indigenza in cui versa il mondo della danza, del teatro e della cultura in generale; dall’altro, e più propriamente, riguarda l’isolamento dell’individuo all’interno della collettività, o meglio di una collettività mancante. 
La coreografia nasce dall’indagine intorno a cinque figure di donne della letteratura contemporanea che non sempre si collocano come portanti dei testi che le contengono (“La vita accanto” di Maria Pia Veladiano, “La compagnia del corpo” di Giorgio Falco, “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano, “Sangue del suo sangue” di Gaja Cenciarelli, “Anatomia della ragazza zoo” di Tenera Valse). Lo studio parte quindi dalle caratteristiche, a volte appena accennate a volte ben delineate, di cinque figure di donne per svilupparsi in un rapporto remoto tra esse. 
Il lavoro spaziale diventa in SCOREFORFIVE di fondamentale importanza così come la differenziazione delle figure. Ogni figura passa dal ruolo di soggetto a quello di oggetto della  memoria della figura che la segue e la precede e, ovviamente, dello spettatore. Si richiede quindi un grande sforzo anche allo spettatore che, se vorrà avere un’idea della totalità del lavoro, dovrà ricostruire nella propria personale visione l’interezza dello spettacolo. Si stabilisce quindi un patto tra scena e spettatore, ponendo estrema fiducia nei confronti di quest’ultimo. Percezione senza esperienza, collettività individuale. Un paradosso di ossimori. Una sfida interpretativa che mi costringe a focalizzare il nucleo dell’azione presente in un’azione asincrona.
SCOREFORFIVE è costruito sulla sola ascissa dello spazio; il tempo – mancando la sincronicità delle cinque azioni – non può essere un fattore determinante. La coreografia si dipana quindi come una linea, in orizzontale, una planimetria. Non c’è un prima o un dopo; l’ordine delle azioni è legato esclusivamente alla connessione spaziale tra una figura e l’altra. 
Qualche curiosità sul suo percorso: decida lei cosa vuole raccontare, quali sono stati i momenti/lavori più significativi… vorrei sapere com’è nata la sua passione per la danza e se da quando ha iniziato è cambiato qualcosa per lei, in positivo o in negativo?  
Più che di passione parlerei di urgenza, un’urgenza che con il passare degli anni è diventata sempre più pressante. Con la goffaggine infantile tentavo le coreografie di Raffaella Carrà nel salotto di casa, davanti al televisore in bianco e nero, il sabato sera; avrei voluto essere lei, diventare come lei. Poi la mia strada è stata un’altra, ma non ho più potuto smettere. Nel 2014 ho fermato su carta il mio percorso con “Corpo politico – distopia del gesto, utopia del movimento”, volume pubblicato da Editoria & Spettacolo. Non sono mai entrata fino in fondo nel sistema della danza italiana e mi sono sempre volutamente tenuta ai margini con brevi incursioni. L’ho fatto per molti motivi, non ultimo perché è un sistema che fatico a riconoscere e che punta il riflettore con grande intensità per un breve periodo per poi lasciare al buio. È questa una modalità che uccide la danza e ogni tipo di arte, un sistema che negli ultimi anni si è particolarmente acuito. Questo è però un discorso che riguarda la politica culturale del nostro paese e per rispondere seriamente ci vorrebbero molto tempo e fiumi di parole. 
Tornando invece al mio percorso personale, negli anni c’è stato un cambiamento importante nel mio stare sulla scena e nel mio modo di vivere il movimento. Esistono infatti due aspetti della coreografia nel mio lavoro, che potrei definire come danza esterna e danza interna. La prima riguarda il movimento nello spazio, le linee disegnate dal corpo in movimento, la forma del corpo in contatto e in relazione con lo spazio; la danza esterna necessita distanza nella visione, per dare la possibilità all’occhio di comprenderne (nel senso di accogliere, lasciare agire, prendere con lo sguardo) la totalità e poterla mettere in relazione con lo spazio in cui agisce. La seconda è esclusivamente interna al corpo stesso, è fatta di muscoli, di tensioni interne, di vibrazioni muscolari e nervose, di vene, la forma del corpo in contatto e relazione con il proprio confine, la pelle che, oltre a svelare la forma, è medium percettivo; la danza interna necessita di vicinanza, l’occhio deve seguire il percorso della pelle, deve poter cogliere il dettaglio, entrare dentro la vibrazione per comprenderne il disegno. Negli ultimi anni la mia attenzione si è spostata sempre più verso l’interno senza però dimenticare l’esterno. I movimenti, mai gratuiti o puramente estetici, hanno trovato la radice, il nucleo di innesco all’interno del corpo, il motore di ogni movimento parte dal centro e mai dall’esterno. Sono movimenti coreografici “vissuti dal corpo” e mai “abitati dal corpo”. La necessità di una vicinanza con lo sguardo mi ha portata a creare in questi ultimi anni due performance nate per essere presentate in luoghi piccoli, raccolti (appartamenti, studi di professionisti, associazioni culturali, circoli, sale di musei, piccoli teatri con gli spettatori sul palco), due performance che esplorano la fragile linea di divisione tra azione e visione, e sperimentano la nudità dell’azione stessa, la sua veridicità priva di maschere di protezione. Una vicinanza che ogni volta crea relazioni importanti tra chi agisce e chi guarda e che elimina quell’aura di “intoccabile” propria degli spettacoli da palco.  Originati da due romanzi di Ivan Fantini (“educarsi all’abbandono” e “animanimale _ apologia di un genere umano”) Prove di abbandono – che in un anno e mezzo è stato presentato 42 volte – e d’animanimale – che ha debuttato il 31 ottobre di quest’anno al festival teatri di Vetro e che stiamo replicando – sono stati creati insieme a Ivan Fantini e comprendono la sua lettura e la mia azione coreografata.
Durante questi anni ho collaborato con molti musicisti, tra i quali vorrei citarne tre. In primis Ezio Bosso che nel 1994 compose ed eseguì dal vivo le musiche per contrabbasso solo per Flatus, un canto da, spettacolo che ci permise di farci conoscere dalla scena contemporanea e fu presentato in molte città italiane e all’estero. Le musiche, nate contemporaneamente alle coreografie, contribuirono a creare una forte sintonia tra gli interpreti – due danzatrici, un musicista e un light designer; come in un quartetto da camera, i momenti solistici si dividevano negli esecutori per incastrarsi tra loro, creando così un’unica linea melodica ed esaltando la pura armonia.
E poi c’è la collaborazione decennale con Fabio Barovero che dal 2005, anno in cui nacque Corpus Hominis, al 2016 con Prove di abbandono ha creato le musiche e i suoni dei miei lavori con un’attenzione e una sensibilità estreme. Infine Fabrizio Modonese Palumbo con il quale collaboro da un paio di anni e la cui musica (“Verbo presente” e “d’animanimale”) crea “stazioni di suoni, arcate di ponte che sorreggono e racchiudono lo spazio della danza con la solidità di una cattedrale romanica” per dirlo con le parole di Enrico Pastore.
Ma non posso non citare un’altra collaborazione fondamentale, quella con Barbara Klein e il Kosmostheater di Vienna iniziata nel 2007. Da allora abbiamo creato quattro spettacoli con attori/danzatori, una sorta di coregia in cui lei si occupa della parola, io del corpo. 
Qual è il tema della coreografia? Come lo spiegherebbe? Le danzatrici sono 5 donne estranee tra di loro ed ognuna è una vittima… come è riuscita a rendere questa triste situazione attraverso dei passi di danza? 
Il tema di SCOREFORFIVE non è la lotta contro la violenza sulle donne e la mia intenzione non è mai stata quella di lavorare specificatamente su un tema così complesso e delicato. Ho lavorato su cinque figure di donne tratte da cinque romanzi contemporanei, donne che, per il solo fatto di essere tali, subiscono violenza. Vittime di violenza familiare, vittime dei canoni di bellezza imposti, vittime di insoddisfazione e di noia, vittime del degrado urbano e sociale, vittime consapevoli e inconsapevoli, vittime di piccole violenze quotidiane che le trasformano, che le costringono, che deformano il loro corpo. La violenza non è solo quella fisica ma è anche quella che ci impone di essere sempre belle, giovani e in forma, di non trascurare gli affetti, di essere indipendenti ma docili, di essere intelligenti ma non troppo, di essere madri, di essere tante cose insieme senza la reale possibilità di essere ciò che vogliamo. Questa è la violenza subdola che subiamo quotidianamente e che ci costringe a una lotta senza tregua. Portare le contraddizioni, le difficoltà nel corpo è il mio mezzo ed è per mezzo delle tensioni che attraversano il mio corpo che “parlo”. Quello corporeo è il primo linguaggio che gli esseri umani imparano. I bambini comunicano con il movimento prima che con la parola eppure crescendo perdiamo questo rapporto diretto con il linguaggio corporeo per privilegiare il linguaggio verbale. Il mio modo di lavorare non prevede una narrazione dicibile verbalmente, ma una drammaturgia precisa, dove per drammaturgia intendo il senso di ciò che espongo sulla scena, le fasi di sviluppo e di intenzione che andranno a generare la coreografia, che innescano la ricerca coreografica. Non si tratta quindi di astrazione ma di un lavoro concreto sul senso di ciò che avviene sulla scena. Il lavoro sulle variazioni di tensione, sistole e diastole, sull’uso dello spazio e sul suono generano una (re)azione corporea in chi siede in platea. Questa azione del corpo in chi guarda (variazione di tensione muscolare, accelerazione del battito cardiaco, irrequietezza motoria) è ciò che un’azione coreografica dovrebbe generare. La cosa importante è che queste reazioni del corpo di chi guarda vadano nella stessa direzione delle intenzioni di chi agisce sulla scena.
Qual è il suo intento con questo progetto? Pensa che la danza sia più capace ed efficace di altre forme d’arte nell’esprimere messaggi significativi come questo? Se si, perché? 
Non ho messaggi da lanciare. Il mio intento è quello di porre domande, mai di consegnare risposte. Non credo che la danza sia più efficace di altre forme d’arte. Credo che ogni singola danza e ogni singolo atto artistico siano estremamente efficaci nella misura in cui sono autentici e potenti, nel momento in cui colpiscono l’emozione di chi li accoglie.


D'ANIMANIMALE

Moving Bodies Festival: tra butoh, performance e Catastrofe
11 e 12 novembre appuntamento con le live arts a Torino, dove si è svolto il Moving Bodies Festival
di Tessa Granato Fermata Spettacolo - 23 novembre 2017

[ … ] d’animanimale - azione per corpo e voce, di Paola Bianchi e Ivan Fantini, (è) un lavoro teso e tagliente che vede la commistione tra il reading e la danza. Il testo di Ivan Fantini è intriso di parole secche, tese, disaccordi che si scontrano per generare un male di vivere che attanaglia il corpo e le sue espressioni verbali, in contrasto con il suo monotono andamento della voce – forse troppo. Da contraltare il sottofondo sonoro manovrato da Paola Bianchi, che entra successivamente in scena svelando la sua coreografia non rassicurante, manifestazione esteriore di turbamenti e invettive, stati d’agitazione e rifiuto di una perfezione estetica. La sua ricerca sul corpo come bersaglio, preda, attraversamenti di violenti istinti, arriva forte e chiara.


Cronache di una danza Fuoriformato
By Andrea Pocosgnich Teatro e Critica - 3 luglio 2017

Fuoriformato torna per la seconda edizione, questa volta è stato ospitato dal Museo d’arte contemporanea Villa Croce. Siamo stati a Genova, ecco il racconto tra sessioni di videodanza e performance dal vivo

Comincia dalla schiena, rivolta verso la parete, le scapole si incontrano e si ritraggono; poi le spalle vengono tirate fino a mostrare i muscoli anche più piccoli. In una delle sale del Museo di arte contemporanea Villa Croce di Genova il pubblico occupa quasi tutto lo spazio, alla scena rimane una mezza luna, ma a Paola Bianchi basterebbe anche un perimetro più piccolo. Il volto è negato al pubblico, al voltarsi del corpo il viso rimane nascosto dai capelli color metallo, ne mostrerà una piccola porzione solo in un’occasione: emettendo un urlo muto dalla bocca semi spalancata rivolta alla platea. Tutto è affidato al corpo, anche la relazione empatica con il pubblico che qui è intesa come uno sviluppo progressivo, d’altronde la stanza è illuminata completamente, l’occhio dello spettatore non deve lasciarsi distrarre ma deve focalizzare l’attenzione sui particolari minimi: lo spazio tra i muscoli, il movimento che si rompe in una sincope ritmica dolorosa; il tappeto sonoro è uno scroscio che ora fa apparire quella muscolatura esile, in preda alle intemperie. Cadono le mani, i polsi, scendono gomiti e spalle: chi siamo per sostenere il peso di una vita intera? Paola Bianchi veste un abbigliamento da dura: canottiera, pantaloni neri infilati dentro a stivaletti, ma in realtà è come fosse nuda, il suo è un sortilegio. Nonostante l’atto di celare il viso e gli occhi allo sguardo del pubblico la relazione è nei fatti un’ostensione in cui l’ultima parte si scioglie nelle note dolci di Fabio Barovero, catarsi struggente di un piccolo e potente rito collettivo. S.O.N. di Paola Bianchi è una delle performance di danza programmate all’interno della seconda edizione di Fuoriformato, una tre giorni dedicata alla danza organizzata dal Comune di Genova con la collaborazione di tre realtà del territorio: Teatro AkropolisDanzacontempoligure e Collettivo Augenblick.










DIMENTICARE IL DOLORE ATTRAVERSO ESERCIZI DI STILE: 
LE “PROVE DI ABBANDONO” DI BIANCHI/FANTINI
di FRANCESCA GIULIANI PAC - MAGAZINE DI ARTE & CULTURE
02/11/2016
Come raccontare il dolore? Come “donarlo” rivivendolo e esorcizzandolo allo stesso tempo attraverso il dire e l’agire, il gesto e la parola? Paola Bianchi, danzatrice e coreografa, e Ivan Fantini, cuoco-scrittore (cuoco eterodosso e dimissionario, scrittore per urgenza – come lui stesso si definisce) con il loro ultimo lavoro Prove di abbandono scelgono di volta in volta un “piccolo” luogo in cui stare per “donar-si” in racconti fatti di azioni dure, suoni spasmodici e ricordi dolenti. Dalle case private a festival come quello ad Aliano organizzato dal paesologo Franco Arminio, “La luna e i calanchi” fino al più recente “Teatri di Vetro” diretto da Roberta Nicolai hanno attraversato, con il corpo l’una e la voce l’altro, queste realtà per abitarle. 
“Il luogo piuttosto che lo spazio – citando dalla presentazione del lavoro Andrea Tagliapietra – è qualcosa che ha a che fare con la memoria, con le emozioni e con il desiderio. I luoghi stanno alla storia vissuta, come lo spazio sta al tempo cronometrato. ”
Portato in scena in una sala della Tenuta del Tempio antico a San Giovanni in Marignano all’interno di una rassegna organizzata da Teatro dei Cinquequattrini, Prove di abbandono annuncia già nel titolo qualcosa di provvisorio, modificabile, transitorio. Un esercizio volto all’abbandono, un lasciarsi andare che dice sia il negativo sia il positivo intrinseco nella parola fin dalla sua radice più antica à ban donner, quindi donare e donarsi. Entrambi vestiti di nero. Ivan Fantini è al mixer. Paola Bianchi è nello spazio vuoto, di spalle, davanti a una decina di spettatori inizia impercettibilmente a muovere strati di corpo. Il sonoro, una musica elettronica metallica e sottile, piano piano invade la stanza attraversando la danzatrice. La pelle delle spalle si comprime e raggrinzisce, le braccia scattose si alzano con le dita delle mani tese, i tendini sembrano uscire e i muscoli si evidenziano nella tensione di un dolore che sarà poi narrato. Ora trema e crolla. Più aumenta il tremore e più forte è il crollo mentre le note di un piano tristemente risuonano. 
Le braccia tese, rapite come da un battito d’ali, scomposte, in avanti la testa le segue, le gambe non sembrano reggere il peso e rallenta. E, come colpita in petto da una lama tagliente, di nuovo riparte in un movimento vorticoso che avvolge il corpo su se stesso. Queste immagini, a tratti iconiche, anticipano quasi annunciandole le parole che Fantini leggerà di lì a breve.
Lo spazio si svuota e i ruoli si scambiano. Lei è al mixer mentre lui va in scena. Il cuoco-scrittore avanza al centro della stanza il leggio e come raccogliendo la presenza lasciata dalla danzatrice nello spazio si allontana fino al muro per avvicinarsi di nuovo lentamente al libro. Dondola, quasi scandendo il tempo. Inizia la lettura di brandelli del suo ultimo romanzo, Educarsi all’abbandono_frammenti mutili
La cadenza ritmicamente cantilenante, cosparsa dal forte accento romagnolo, culla e rende più udibile l’ascolto di quel dolore che scaturisce dalla parole dette. Il protagonista descrive in prima persona stati di corpo, una corporeità dolorosa e dolorante che attraversa ricordi di nature e animali, cibi biologici e aule di scuola. La puzza di carne bruciata in una cucina afosa sembra assuefare quell’Io che racconta il suo lento morire interiore. Trema nelle parole del racconto, mentre davanti a noi quell’oscillamento ritmico sembra necessario a esorcizzare il ricordo di quel vissuto doloroso. Nel racconto che prosegue, in quell’interno che brucia, nel respiro circonciso e nel battito sedato pronto a esplodere sembra rintracciare tratti di corpo agiti da Paola Bianchi. La precisa comunicabilità che si rintraccia tra l’azione performativa, la scrittura e la musica – composta dal musicista Fabio Barovero – che sottende le parole e i gesti, la sovrapposizione tra memoria e i ricordi sul presente mostrano come quel dolore sia qualcosa di necessario da trasmettere.


Prove di abbandono, presente al festival romano Teatri di Vetro 10 nell’insolita location di Tuba – luogo intimo e delicato che è al tempo stesso un bazar e una libreria e uno spazio performativo – è un lavoro attento ai dettagli e fuori dal comune.
Dalla presentazione dello spettacolo si può leggere: “un dialogo a tre voci, tre linguaggi diversi che si compenetrano e sostengono vicendevolmente”. Tale dialogo è portato avanti da Paola Bianchi, danzatrice e coreografa, Ivan Fantini, scrittore, e Fabio Barovero, musicista. Il percorso nel quale i tre artisti ci fanno immergere parte proprio dal nocciolo che vi è dentro al frutto del termine abbandono:  “La parola abbandono contiene in sé molti significati” – scrive Paola Bianchi – “lasciare definitivamente, smettere, desistere / lasciare senza aiuto o protezione / smettere di fare, rinunciare, mettere da parte / allentare, lasciare andare, rilassare / venire meno, venire a mancare / non opporre resistenza”.
Assistiamo a tre sfumature diverse, ramificazioni di questo concetto, appartenenti alla stessa radice, portata, donata, in modalità differenti a seconda del donatore, che sia in musica, a parole o con il corpo. Uso i termini “donare” e “donatore” perché  abbandono/abbandonare/abbandonarsi  in accordo con l’espressione francese medievale, à ban donner, è anche donare, donarsi e infine, ricevere in dono. L’azione del pubblico è dunque attiva e  ha lo scopo di accogliere questo dono e partecipare silenziosamente al processo che davanti a lui, in quella piccola intimità, si crea mano a mano, come se tre giocatori si passassero la palla davanti alla restante squadra, silenziosa ed attenta.
Il corpo di Paola Bianchi si muove su musiche rarefatte, con movimenti interni, scattosi, muscolari, quasi come se al suo interno ci fossero delle viti che mano a mano le venissero tolte, muri fisici e mentali abbattuti di volta in volta; questo processo è descritto dettagliatamente da Paola nel suo libro-manifesto Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento , in cui spiega come miri ad una danza “interna”, attenta nei ai dettagli, che non badi al rapporto del corpo con lo spazio esterno. I suoi movimenti preparano l’atmosfera (preparano, non la descrivono) alle letture di Ivan Fantini dal suo libro Educarsi all’abbandono, frammenti mutili: deliri di un personaggio accerchiato, dalla natura, dal logorio dei giorni, dal rimuginare umano, un vorticoso dialogo serrato e crudele con se stesso e con un mondo sordo. Ivan porta in scena ciò che sente, senza ammiccamenti o inutili estetismi e questo si sente e si apprezza, ma troppo spesso il testo appare quasi un pretesto di sfogo che non riesce a comunicare propriamente con lo spettatore, soprattutto in un contesto in cui il fil rouge è quello di donare e donarsi.  Fabio Barovero, invece, ci guida durante tutta la performance con un tappeto musicale che sorregge e cammina di pari passo con i due artisti fino a concludere con un solo scomposto  e malinconico.
La performance risulta essere una concatenazione di linguaggi, scostanti dal reale ma che parlano del reale.  Prove di abbandono ha bisogno di ascolto e di raccoglimento; un lavoro bivalente, da attuarsi sia da parte del pubblico che da parte dei performer, un esperimento, un atto di ab handen, un essere lasciato andare al suo destino e lasciato esistere, a briglia sciolta.

SCRITTURE INCARNATE. RIFLESSIONI INTORNO A PROVE DI ABBANDONO 
recensione di Laura Gemini
18/09/2016
Da tempo le arti performative ci consegnano una “verità” che prima non si dava tanto per scontata. Una verità che si è sincronizzata con le forme del sapere – scientifico e culturale – per mostrare come l’esperienza umana non possa che essere nell’emergenza dell’unità mente-corpo, bios e logos e che nelle diverse accezioni di questa condizione è possibile vedere all’opera l’immaginario, sperimentare l’esistenza di un’immagine efficace, trasformativa, finanche curativa.
Ed è proprio in questi nodi che possiamo rintracciare il valore di un lavoro come Prove di abbandono, azione coreografica di e con Paola Bianchi, da e con Ivan Fantini e interventi sonori di Fabio Barovero che ha come punto di partenza il secondo romanzo di Fantini, Educarsi all’abbandono_frammenti mutili (edizioni Barricate) da cui Paola Bianchi ha estratto una serie di immagini coreografiche, su cui Barovero ha lavorato per la composizione musicale e di cui Fantini legge alcuni passaggi.
Da circa un anno questo lavoro – nato per abitare i luoghi, per costruire situazioni di vicinanza con numeri esigui di spettatori per volta – è stato ospitato prevalentemente, forse preferibilmente, nelle case private, poi in ambienti non usuali come librerie e osterie o nell’ambito di occasioni extra-teatrali ma anche in diversi festival. Da La luna e i calanchi di Aliano (direzione artistica di Franco Arminio) a Teatri di Vetro di Roma dove sarà possibile vederlo dal 29 settembre al 22 ottobre prossimi.
Nella scelta dei luoghi e delle occasioni in cui portare Prove di abbandono sta già una prima straordinarietà di questo progetto ovvero la valenza politica che risiede nella sua sostanziale indipendenza e nel fatto che la sua distribuzione dipende dal passa parola, dal coinvolgimento ospitale, dalle relazioni fra persone.
Scelta coerente fra l’altro con quell’idea di abbandono – sia nel titolo dell’azione scenica sia nel romanzo – che sta a significare non solo la resa, il venire a mancare di qualche cosa ma anche l’idea del dono, del lasciare qualcosa per qualcun altro in accordo con l’espressione del francese medievale à ban donner da cui deriva. Abbandonare come donare e donarsi – ma anche accettare di ricevere un dono, punti di partenza di ogni legame sociale sensato – è perciò il filo che lega le diverse parti di questo progetto che a ben vedere sembra fatto di molti doni e abbandoni.
Sebbene Prove di abbandono nasca quindi come necessità coreografica ispirata dal romanzo, sul piano della resa performativa la sequenza testo scritto-coreografia viene capovolta: prima la parte coreografica poi la lettura dalla viva voce dell’autore. Questa dinamica invertita può essere pensata come un ulteriore segno del senso politico del progetto che ribadisce scelte e percorsi di ricerca indipendente e anti-rappresentazionista che caratterizza gli ambiti espressivi nei quali da tempo entrambi si muovono.
Nonostante la dichiarazione di un’ispirazione dal testo sia esplicita, il lavoro di Paola non rappresenta il testo, non lo traduce in immagini riconoscibili, ma lo attraversa secondo percorsi che sono tutti suoi, interni, incarnati. E che ritroviamo nella danza chiusa, muscolare, poetica e tragica che è la cifra drammaturgica della sua coreografia. Qui Paola privilegia quella che nel suo libro-manifesto Corpo politico. Distopia del gesto, utopia del movimento, definisce “danza interna” e che, diversamente da quella “esterna” che pone come centrale il rapporto del corpo con lo spazio, si concentra sul dettaglio, sulla vibrazione del corpo, sulla sua energia evocando il simbolico che è nel bios cioè nella vita.
Come ha detto una spettatrice durante uno degli incontri dopo Prove di abbandono il corpo di Paola prepara il corpo degli spettatori all’ascolto della lettura del testo e delle sue parole incarnate, ancorate al vissuto del personaggio protagonista del libro e a una scrittura serratissima che chiede attenzione senza ammiccamenti, senza ricerca del consenso.
Educarsi all’abbandono_frammenti mutili è un romanzo che porta dentro alla storia di un personaggio e dei suoi deliri: quello che pensa, le esperienze che ricorda, le cose che fa ma che spetta al lettore mettere insieme guidato dalla struttura grafica del testo con i caratteri che cambiano, ad esempio, e soprattutto con i frammenti mutili: vere e proprie pagine bianche che chiedono al lettore di fare una pausa, di interrompere il flusso del romanzo il cui senso finale ci interpella come esseri umani, nella nostra capacità, o volontà, di educarci all’abbandono.
Ivan, che non è un attore, legge con la sua voce, con tutto il suo corpo – che è l’espressione di una provenienza, di un bios ancorato a un logos – e apparentemente senza guardare il pubblico si accorge di tutto. Di chi lo osserva, di chi chiude gli occhi per ascoltare meglio, di chi si distrae… Alla fine, quando anche lui si allontana dal leggio, si comprende l’operazione nel suo complesso, si pensa per immagini, si cominciano a riconoscere dei segni – ad esempio un gesto di Paola che richiama la copertina del libro di Katjuscia Fantini oppure una relazione tra la danza che sembra sciogliersi a un certo punto insieme alla melodia – pur sapendo che quei segni li abbiamo noi nella nostra testa, che quelle associazioni le produciamo da soli nel bisogno di ricondurre sempre l’ineffabile a qualche cosa di conosciuto o riconoscibile. Oppure soltanto perché il lavoro spettatoriale non è mai passivo.
Le conversazioni che seguono sono il prodotto di una comunità temporanea che si costruisce ogni volta. Non è un semplice confronto fra pubblico e autori. Sensazioni e domande condivise hanno ben poco a che fare con la semplice curiosità di chi vede uno spettacolo. Rimandano piuttosto a quell’intreccio fra arte e vita che può riguardarci tutti, al dono che l’arte da sempre elargisce agli esseri umani.


PROVE DI ABBANDONO DI E CON PAOLA BIANCHI E IVAN FANTINI
recensione di Enrico Pastore
29/03/2016
Abbandono. Parola complicata. Un oscillare tra positivo e negativo, entrambi bordi d’abisso. Da una parte un dare in balia, dall’altra un lasciar andare, un affidarsi completamente. E questo fluttuare è ambiguo anche nell’etimo. A bandon, vendere all’asta, all’arbitrio del miglior offerente; oppure Ab Handen, l’essere fuor di mano di un oggetto, un lasciarlo andare al suo destino, come una barchetta al destino dell’onda, un lasciarlo esistere con le sue forze senza imbrigliarlo nella funzione. Se a questo metafisico dondolio si aggiunge la parola: prova, tutto si fa ancor più complesso nel suo tendere ai confini di due estremi.
Le azioni coreografiche di Paola Bianchi e le letture di Ivan Fantini, dal suo libro educarsi all’abbandono: frammenti mutili, sono dunque agite tra l’essere lasciati e il lasciar andare. Una danza composta di gesti attivi, a volte violenti, ma subito lasciati, abbandonati. Un corpo in movimento, a scatti, frastagliato nei ritmi, schizofrenico nell’agire degli arti a diverse velocità e ritmi, nel perpetuo dondolio tra il lancio e l’abbandono a una caduta, sia essa tragica e non voluta, sia essa volontaria.
E poi il testo di Ivan Fantini. Episodi, stralci, frammenti di un agire-patire a volte in una cucina ossessionata dallo sfrigolar di carni su una griglia, che ricorda un po’ gli inferni di Emanuel Carnevali nelle cucine d’America; a volte in una campagna popolata da animali dotati della potenza dello spirito dei tempi antichi, con oggetti dotati di forza, di significati che vanno ben oltre il loro consueto. Un essere accerchiati da azioni, cose, animali che potenti oltre ogni dire, lasciano in balia, abbandonato alle proprie miserie, a pensieri vorticosi che non trovano sbocco perché avulsi da una natura che se ne frega del nostro rimuginare.
Danza e parola, corpo e suono, perché musicisti si alternano nei diversi luoghi improvvisando sonorità che si intersecano con i diversi stati e strati di abbandono. Anche i luoghi dove avvengono queste azioni è significativo: in abitazioni private, in luoghi abbandonati, oscillando tra il privato e l’assente, dove il pubblico è lì per invito, come ospite, non come a teatro dove paga ed entra a godersi l’intrattenimento. Certo, molti diranno, mica da oggi si fanno azioni artistiche, performance, in casa o in luoghi che non siano teatro, mica c’è da stupirsi. Eppure il consueto è portatore di fresche brezze di senso. Non perché abbiamo sentito mille volte il tema dell’habanera di Carmen, il senso di pericolo e di furiosi spiriti liberi e vitali vien meno, anche se viene usata per pubblicizzare un detersivo. La maestria del fare, dell’artista vero che agisce solo perché spinto da intime esigenze che profonde scuotono il suo essere, non cade mai nello scontato. Solo il mestierante e il dilettante ricadono nel circolo vizioso della consuetudine, perché incapaci di sfuggire all’attrazione del consenso, del facile, dell’ovvio. La commozione, come insegna Morandi con le sue nature morte, – sempre quelle bottiglie, sempre loro -, può abitare anche sulla tavola grezza della casa di campagna.



ZERO

PAOLA BIANCHI: DA ZERO A INFINITO
recensione di Enrico Pastore 
23/03/2016
«…sento che c’è bisogno di un RITUALE, che sia ASSURDO dal punto di vista della vita, ma capace di attirare l’oggetto nella sfera dell’arte»
Tadeusz Kantor
«C’è una cosa che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da qualche diletto estetico»
Marcel Duchamp

Domani sera 24 marzo all’interno di Slavika, alle Officine Corsare alle ore 21 verrà presentato Zero di Paola Bianchi. Lo consiglio a tutti coloro che sono innamorati del Teatro e della Danza. Sì! Quelli con la maiuscola davanti.
Cos’è Zero? Zero non è niente. Zero è la massima potenzialità. Zero è il numero del Matto nei tarocchi, la carta di chi avanza verso l’abisso, lo sguardo verso l’orizzonte, la sacca e il bastone del viandante e un cane che gli morde i calcagni quasi a impedir l’andare verso un dove sconosciuto perché la carta non ha paesaggio né orizzonte.
Zero è una performance piena di questo nulla, di ciò che non ha determinazione e quindi può esser qualsiasi cosa. Il suono per esempio, questi soffi e respiri, son quelli di Kantor, i silenzi tra una parola e l’altra, mentre registrava alcune di quelle parole che hanno segnato indelebili la scena. I respiri tra le parole, quelli che nessuno calcola. È la parola ciò che importa! La parola del Maestro! E invece Paola Bianchi sceglie quei respiri tra due mondi, quei suoni che raccolgono la fatica di aver detto e preparano con nuova forza il dire che ancor non è.
Ma, come dice Paola Bianchi, Zero non è uno spettacolo su Kantor. E come si potrebbe? Ciò che Kantor faceva accadere sulla scena apparteneva solo a lui, alla sua vita, i suoi ricordi, i suoi fantasmi, i suoi oggetti provenienti da quella realtà dal rango più basso che lo affascinava. Una Generatio Aequivoca che non era rappresentazione né interpretazione. Era un prendere vita delle cose e delle persone come nei racconti di Bruno Schulz, in cui nel pieno mistero della vita che si autogenera non vista, e crea drammi cosmici, deflagranti efflorescenze incontrollate, misere, devastanti, caleidoscopio di possibilità non prese in considerazione, scartate, messe là nell’angolo perché in qualche modo non degne di attenzione. Questo in fondo è Zero di Paola Bianchi: un viaggio alla ricerca di quei corpi e di quegli oggetti abbandonati in una soffitta, oggetti e corpi che danzano e parlano senza esser visti, nel vuoto cosmico tra i granelli di polvere che lenti si depositano su di loro. Un lento deambulare di quei manichini pieni di vita, via di mezzo tra un morto vivente e uno spaventapasseri, quel camminare incerto di essere tra la vita e la morte, in quell’eterno confine tra un aldilà e un aldiqua, in quel confine pieno di spasimi, di afflati, di sussurri che dicono tutto senza dir nulla.
Zero è un’esperienza che nulla ha a che fare con l’estetica. Se qualcuno pensa di andar a vedere uno spettacolo che rappresenta un momento di svago, stia pur a casa. Zero è un dramma, di quelli veri, di quelli tosti. Il dramma dell’esserci prima di sparire. Esserci e agire, sotto una luce tenue per un momento, un istante colmo di tremule potenze che scuotono l’aria prima di ritornar nel buio. Ci si strugge a veder quel vecchio sul fondo, con il suo bastone, camminar a fatica, tra i sussurri, verso non si sa dove, forse solo a girar in tondo senza un perché, forse nel pieno di un’intenzione così forte da sfuggir alla morte e all’esser dimenticati. E quella figura che danza scomposta, come un manichino a cui si son rotte le membra o un burattino a cui si sono intrecciati i fili. E quelle cose là? Quelle abbandonate sul palco, non in una discarica dove il cumulo può almeno significar la fine di una funzione, no! Abbandonate nel vuoto nero del palco, prive di appigli, di funzioni, di assenza di funzione, nel semplice esser lì con le loro mute domande.
Zero è tutto questo. Non parla di Kantor, ma Kantor nel vederlo, magari seduto su una vecchia sedia a bordo del palco, avrebbe sorriso, scorgendo un orizzonte da lui a lungo percorso e attraversato. Poi si sarebbe alzato e senza dir nulla, come una delle sue figure, se se sarebbe andato nel buio del retropalco, senza salutare nessuno.



SPIFFERI DI KANTOR A CRACOVIA: UNA COREOGRAFIA DI PAOLA BIANCHI, DA MARZO 2016 IN ITALIA
recensione di Onimo Archico su ERODOTO108
3/03/2016
ZERO, la nuova creazione coreografica di Paola Bianchi, non finisce con gli applausi della folta platea che occupa la sala teatrale della nuova, bellissima Cricoteka di Cracovia. ZERO ti accompagna nella quotidianità, perché è un’opera d’arte. ZERO lo senti quando bevi il caffè, quando fumi la sigaretta, quando respiri, perché non sei solo, sei con il maestro Tadeusz Kantor al tuo fianco. Sei con il maestro perché la capacità della Bianchi è quella di evocare senza esplicitamente rappresentare, perché ZERO è pregno di spifferi, respiri, corpi kantoriani senza scimmiottamenti facili. Gli elementi che si colgono in questa creazione sono quelli che precedono la creazione kantoriana. ZERO svela i riferimenti letterari e i riferimenti pittorici ai quali Kantor si ispirava per le sue creazioni; lo svelamento avviene grazie alle posture, ai movimenti, alle staticità che la Bianchi impone al proprio corpo e a quello di Giuseppe Tordi – attore non professionista che affianca mirabilmente la Bianchi in questa creazione. Lo stesso Tordi è guidato sulla scena da una curiosa, lenta inerzia che non finisce mai. La camminata, lo sguardo, le imprecazioni, le simulazioni rappresentano una linea circolare che non trova mai fine, mentre la Bianchi con i suoi movimenti fa vibrare muscoli e tendini. Dalla visione si evince l’enorme lavoro drammaturgico che ha preceduto la partitura per corpi messa poi in scena, studio al quale la Bianchi resta estremamente fedele come nei lavori precedenti. ZERO non è uno spettacolo di teatro danza, non è uno spettacolo di danza contemporanea, è una galleria d’arte che si fa corpo, che prende vita, che ti si attacca addosso. ZERO osa, fino a spingerci all’ascolto di una danza verbale (ultimo approdo della sperimentazione della Bianchi), chiede immaginazione, attenzione, chiede partecipazione attiva nel semibuio di una scena abitata da assenze.
Cracovia, 14 novembre 2015


ZERO: dal levare all’apporre a passi di danza
L'omaggio di Paola Bianchi all'artista polacco Tadeusz Kantor.
recensione di Irene Gulminelli su Gagarin Magazine
4/05/2016 

ZERO: il titolo dello spettacolo di Paola Bianchi, presentato al Teatro degli Atti sabato 16 aprile all’interno della sezione dedicata alla danza della stagione riminese, è perfetto per descrivere il pavimento sonoro su cui il corpo va a lasciare e incidere i suoi segni. In questo omaggio che la danzatrice ha scelto di fare all’artista Tadeusz Kantor si vive di sensazioni che vanno a riempire gli spazi, i vuoti e le pause che sono stati volutamente lasciati come sotto testo. Come colonna sonora Paola Bianchi ha tenuto infatti i respiri colti tra una parola e l’altra del regista polacco e i suoni dell’ambiente che lo circondavano nelle sue registrazioni. Su questo tappeto ha saputo poi ricamarci dei movimenti estremamente sottili, in cui ogni parte del corpo sembra dialogare con lo sguardo dello spettatore perso a osservare la luce che risalta il gesto preciso delle dita di una mano o la linea sinuosa e pulita della danzatrice distesa a terra. In un disegno che vuole riempire ogni spazio della scena, Paola Bianchi contrappone il suo continuo fluire armonioso ai passi semplici e lineari di Giuseppe Tordi, impegnato a seguire il suo cammino, come qualcuno che ripete a mente le cose da fare e che non può tenere conto di ciò che lo circonda, per non dimenticarle. I suoi gesti sono rassicuranti e delineano i contorni del foglio su cui la danzatrice segna i suoi bozzetti. Se per tutto lo spettacolo gli occhi sono attirati da queste due figure antitetiche tra loro, a un certo punto si chiudono, per immaginare la scena descritta dalla voce fuori campo. Solo così si possono vedere a pieno i gesti descritti minuziosamente e la scena che si viene a creare, presa in prestito dalla storia dell’arte polacca. Il corpo di Paola Bianchi, con le venature talvolta segnate di nero, sembra muoversi sul palcoscenico come una linea di grafite, capace di disegnare sensazioni ed emozioni che vengono percepite dal pubblico anch’esso protagonista di questo scambio. Le voci dei protagonisti che canticchiano una melodia nostalgica o raccontano una visione sembrano inoltre avvicinarci alla presenza di questi corpi, ma senza rivelarne mai fino in fondo la natura. Anche i pochi oggetti di scena presenti appaiono con una precisione registica che li rende parte a tutti gli effetti della narrazione e il rosso che talvolta li caratterizza spicca come la punta di un pennello appena intinto nel colore di una tavolozza.


WITH

TDV8 | PAOLA BIANCHI, WITH PLURALE
recensione di Valeria Loprieno su NUCLEO art-zine
23/09/2014
With plurale è una performance simultanea in cinque luoghi diversi. Quattro danzatrici collocate in quattro posti differenti delle carrozzerie n.o.t.  hanno eseguito la loro azione di 10 minuti a loop per un’ora di spettacolo, permettendo così ai fruitori di scegliere la modalità di visione dello spettacolo partendo da un luogo condiviso e diviso a gruppi di spettatori. Cinque figure femminili appartenenti all’universo della letteratura contemporanea sono state indagate dalle quattro danzatrici, cinque figure di donne che vivono una profonda solitudine.

Le azioni si svolgevano tutte in uno spazio scenico ben delineato, che rimarcava ancora di più la solitudine del soggetto.  Una solitudine che univa le interpreti attraverso un fil rouge dettato proprio dalla simultaneità dell’azione. L’indagine coreografica era invece molto personale e intima. La semplicità dei gesti, i pochi artifici tecnologici e i suoni minimali creavano quell’atmosfera di sacralità dell’azione scenica. In questo modo il ruolo dello spettatore è risultato cambiato, da consapevole e comodo fruitore, a itinerante e inconsapevole soggetto che  spiava il mondo e le azioni di queste figure.

Entrare nel mondo di ogni performer diventava così un piccolo viaggio dentro se stessi. Lasciarsi attraversare diventava un’esperienza personale e privata. Ogni azione performativa, seppur breve, aveva un’identità e una intenzione ben precisa e a volte molto articolata. Si passava dalla fredda e calcolatrice Margherita alias Marina Giovannini, all’intima Rebecca interpretata da Rhuena Bracci, per poi scegliere di farsi travolgere dalla drammaticità e l’intensità di Valentina Buldrini che interpretava Michela, fino ad arrivare alla stessa ideatrice e curatrice del progetto Paola Bianchi che, incorniciata dalla porta del bagno  perforava con la crudeltà dello sguardo e con gesti netti gli spettatori nell’interpretazione di Alice. La coreografia e la presenza dell’ultimo personaggio, Alea, sono raccontati dalla voce della Bianchi attraverso un registratore e delle cuffie; un bellissimo esercizio di immaginazione e di fantasia.

Seconda tappa di un progetto più ampio, With plurale è una performance ambiziosa e ben riuscita, molto stimolante a livello emotivo e immaginativo.


ISTANZPOLITICHE. DANZA CONTEMPORANEA, SPAZI E SPETTATORI IN WITH DI PAOLA BIANCHI COMMUNITY
articolo di Laura Gemini su L'incertezza creativa

21/03/2014
Che la questione del contemporaneo riguardi la relazione fra artisti e pubblico, operatori, istituzioni e spazi è cosa nota. Lo si vede ad esempio, proprio in questi giorni, con il caso dell’Angelo Mai che porta alla ribalta il problema della resistenza culturale in un contesto nazionale troppo preso da altro per capire e sostenere davvero le realtà artistiche e il patrimonio culturale.
Ed è proprio in questo frame che va collocata l’attività svolta dal 2009 dal [collettivo] c_a_p per diffondere e promuovere la danza contemporanea nel riminese, territorio dove i membri del collettivo risiedono e dove, forse con meno clamore rispetto alle realtà dei teatri occupati in Italia ma di certo con grande spirito di servizio, portano avanti l’idea di “normalizzare” la programmazione del contemporaneo e di non relegarlo nei percorsi ad hoc e risicati di una stagione teatrale.
Un esempio efficace in questa direzione è la realizzazione (7 marzo 2014) del progetto isTANZe al Teatro Diego Fabbri di Forlì, all’interno della stagione del contemporaneo con la direzione artistica di Lorenzo Bazzocchi (Masque Teatro) e Claudio Angelini (Città di Ebla).
isTANZe va visto come un atto politico che assume almeno tre direzioni: la prima motiva l’esistenza e la persistenza del collettivo con l’avvio di un nuovo percorso teso a riflettere e agire sulla mancata destinazione di spazi per la danza contemporanea; la seconda spinge la danza a occupare il teatro a partire dalla messa in discussione della centralità del rapporto palco/platea a favore dell’estensione della performance all’edificio teatro; la terza riguarda più esplicitamente il lavoro dello spettatore.
Questa fase del percorso  isTANZe è stata affidata a Paola Bianchi cui è stato chiesto di abitare il teatro Diego Fabbri in tutti gli spazi agibili escludendo l’uso tradizionale del palcoscenico. Per farlo Paola ha dato vita a WHIT_plurale, una tappa del progetto di creazione utopica UNTITLED _ senza titolo | senza diritti in cui vengono affidati i 5 “ruoli” che Paola esegue da sola nella fase intitolata WITHOUT-quintetto in solo ad altre 4 coreografe danzatrici – Ruhena BracciSara SimeoniValentina BuldriniMarina Giovannini – secondo un processo drammaturgico piuttosto complesso di cui abbiamo avuto modo di parlare durante l’incontro Converso dopo lo spettacolo.
Il progetto UNTITLED ha come focus l’idea dell’impossibilità della simultaneità dello sguardo, parte cioè da un presupposto relativista ma non nichilista secondo cui è impossibile vedere tutte le cose contemporaneamente. Un principio questo che va collegato all’attitudine transmediale di Paola Bianchi e che consiste nell’usare la letteratura come base per la coreografia (D’Ars 216). Già questo è un aspetto da sottolineare poiché mette insieme la tecnologia della scrittura, cioè il medium che sgancia la comunicazione dal corpo e che serve per elaborare i contenuti e le informazioni, con l’immaginario letterario da cui scaturiscono figure e caratteri da rendere coreograficamente, cioè in  maniera analogica.
La sfida consiste allora nel rendere evidente l’improbabilità della comunicazione che, paradossalmente, ci fa stare in relazione proprio grazie al linguaggio anche se poi ognuno l’informazione non può che produrla da sé.
Ed è proprio questo che succede con WITH perché si tratta di un lavoro stratificato sia dal punto di vista della sua costruzione sia per le sue implicazioni politiche, si diceva, ma anche più direttamente legate alla creazione delle coreografie, alla fruizione, all’uso dello spazio.
Il lavoro origina da 5 romanzi, individua 5 figure, attribuisce le figure alle 4 +1 (Paola) coreografe/danzatrici senza che venga richiesto loro di leggere i testi originari ma piuttosto di utilizzare alcune tracce scritte da Paola: piccolissimi blocchi coreografici più o meno uguali per tutte e una serie indicazioni sui diversi caratteri da incarnare.
Sara Simeoni ha lavorato su Anatomia della ragazza zoo di Tenera Valse e sulla la figura che si chiama Alea,  Rhuena Bracci su La vita accanto di Mariapia Veladiano e su Rebecca, Valentina Buldrini è Michela di Volevo essere una farfalla di Michela Marzano, Marina Giovannini è Margherita di Sangue del suo sangue di Gaja Cenciarelli, mentre Paola Bianchi tiene per sé la crudele Alice de La compagnia del corpo di Giorgio Falco.
Senza voler dar vita a dei personaggi ma piuttosto a dei caratteri il metodo di lavoro di Paola consiste
nel partire dai testi da cui ricavo immagini che per me sono forti e su cui poi lavoro senza cercare la linearità della narrazione. (…) Ho consegnato alle coreografe un pezzettino piccolissimo di coreografia scritta, cioè con la descrizione a parole del movimento e questo ha fatto sì che ognuna interiorizzasse lo stesso movimento scritto in un modo personale, inserendolo autonomamente nella propria coreografia. (…) Infatti sono andata una volta alle loro prove soltanto per capire come collocare la loro azione nello spazio. Le nostre sono 5 coreografie autonome e modificate in relazione allo spazio (Paola Bianchi).
Questo è un passaggio che sposta la questione drammaturgica, sempre centrale nella ricerca di Paola Bianchi, “nella testa di chi guarda” (Bianchi) ma anche nell’idea di un corpus organico da cui emerge il lavoro, che non a caso pone nel sottotitolo la parola “plurale”.
Le 5 performance hanno rispettivamente una durata di 10 minuti e vengono eseguite in loop per un’ora circa. Gli spazi coinvolti del teatro sono vicini fra loro e le azioni avvengono contemporaneamente per cui sta allo spettatore decidere e costruire il suo percorso di visione, il tempo di permanenza nel campo di una performance o di un’altra, percependo nettamente che – essendo impossibile la simultaneità dello sguardo – deve scegliere da solo come procedere. Un dato che, a bene vedere non riguarda soltanto lo spettatore ma le stesse performer.
Per me è stato molto divertente lavorare in questo modo perché si parte da un materiale asciutto, netto, predefinito. C’è già tutto un lavoro dietro alle spalle con cui vai in sala prove e che non hai fatto tu ma che è veramente molto chiaro. Ho scelto di non leggere il testo. Lo farò dopo. Ma ieri mentre provavo nello spazio è emersa una parola nuova, una cosa che non sapevo ed è cambiato tutto. È emersa un’informazione in più su mio personaggio che non sapevo e questa unica parola ha cambiato la mia posizione rispetto al lavoro che stavo facendo, nel senso che la coreografia era sì quella ma con un nuovo contenuto… un +1. Era interessante anche sapere che altre coreografe lavoravano parallelamente su altri personaggi e che alla base ci fosse un progetto, un filo logico a tenere insieme il lavoro. Ho scelto di andare in sala partendo da un input forte, presente. Ho scelto di partire da un punto scritto da Paola e di fissare ogni giorno esattamente quello che immediatamente usciva: punto di partenza-creazione-tenuto, il giorno successivo: creazione-tenuto. Non è rimasto tutto però alla fine avevo il materiale su cui lavorare (Rhuena Bracci).
A me è piaciuto molto lavorare a distanza. Poi anche il personaggio che Paola mi ha dato era azzeccato, rimandava a cose che da qualche parte in me c’erano… Sono andata in maniera molto disordinata anche se le cose che Paola mi ha scritto erano anche quelle che cercavo nella mia ricerca, poi ho cominciato a buttare fuori molto materiale. Mentre lavoravo mandavo dei video per stare in connessione, cioè per mantenere un rapporto di vicinanza a distanza. Poi ci siamo viste con Paola, ho distrutto tutto quello che avevamo fatto. (…) Nel lavoro ci sono una parte improvvisata e una fissata, cioè che mantengo su una cosa che provo. Non fisso il movimento ma cerco di essere presente sempre perché la difficoltà e il rischio che è che ogni volta che arrivo in un certo punto della coreografia improvviso un’azione ma devo ritrovare lo stesso tipo di sensazione, la stessa vibrazione. Per cui mi serve la scrittura per avere degli appigli ma poi sperimento in scena. Per me l’effetto era dato dalla relazione con queste stanze, dalla percezione della presenza di Valentina dall’altra parte della tenda, la presenza del pubblico, a volte più numeroso a volte con poche persone per cui  la relazione era sempre diversa. Non mi interessa “eseguire” ma in queste stanze belle si è creata una sorta di intimità che però mi ha permesso di stare “sveglia” sempre (Sara Simeoni).
Ho avuto queste indicazioni tanti mesi fa e le ho lasciate sempre lì. Continuavo a leggermele non sapendo da dove partire. Accettavo che qualcuno mi avesse dato delle informazioni per iniziare qualcosa ma in fin dei conti non accettavo fino in fondo questa cosa, continuavo a guardare e mi dicevo che presto avrei cominciato. Le sentivo distanti e non capivo se iniziare a improvvisare, come faccio di solito, o se chiedere uno sguardo esterno. Mi dicevo che qualcosa sarebbe dovuto succedere. Ed è successo che questa indicazione su un personaggio molto legato alla vita notturna, molto ricca di incubi si associasse a dei miei episodi di sonnambulismo che sono ricominciati dopo diverso tempo… Così sono partita un po’ da quello che mi succedeva di notte e la mattina mi mettevo a provare su questo, insieme alle indicazioni che avevo. Pian piano mi sono accorta che questo materiale che mi sembrava distante in realtà mi corrispondeva parecchio… (Valentina Buldrini).
Valentina sta appesa per le braccia a delle corde e i suoi movimenti sono condizionati da questa trazione. La sua presenza è accompagnata da un video (Enrico De Luigi) di cui abbiamo chiesto spiegazioni.
Questa è la “consegna”. Ho riportato la sequenza scritta del movimento in quella forma. La parte scritta data da Paola è quella in video, più precisamente la parte a terra, mentre la parte in piedi la eseguo appesa alle corde. Ho slegato le due parti dandogli dei linguaggi un po’ diversi. È stato interessante per me perché è stato un modo differente di affrontare un lavoro. Questo lavoro mi ha messo di fronte alla necessità di smontare le cose che faccio di solito. Sono andata a ricercare in un luogo particolare per me che è quello dei sogni e che mi ha dato delle informazioni per la creazione di un’azione che, guarda caso, aveva a che fare con i sogni. Gli incubi facevano proprio parte di quel materiale e qui le cose si sono intrecciate (Valentina Buldrini).
Ho letto quello che Paola mi ha mandato e non mi sono preoccupata molto. Questi scritti arrivati in due fasi e non avevo bene idea di come sarebbe andato avanti il lavoro. Ci sono state delle indicazioni e degli scritti che descrivevano un po’ un personaggio. Li ho letti e ho lasciato che venissero assorbiti per poi tradurli in movimento. A volte sono stata un po’ didascalica rispetto a quello che leggevo, a volte sono andata tutta da un’altra parte mi sono affezionata a delle parole, a delle piccole descrizioni di questo personaggio ed è venuto fuori un mio immaginario su questa persona. Ci sono state delle frasi che mi hanno particolarmente stimolato. Nel mio caso l’indicazione per questa Margherita era “cammina molto” e, siccome capita che ci siano piccole cose che sono nell’aria e che ritornano, qui anche solo il camminare o spostare il peso da un piede all’atro è una piccola descrizione che ha colpita ed è quella su cui ho più lavorato. Poi ci ho lavorato, ho cambiato, pensato, eseguito l’azione come l’avevo pensata ma poi non tornava… Effettivamente è un lavoro molto strano: è collettivo ma hai lavorato in solitudine, sai che contemporaneamente ci sono altre 5 persone che stanno facendo una cosa che tu hai visto solo oggi. C’è questo senso di solitudine estrema però stai condividendo qualche cosa anche solo con il pensiero… È una situazione inusuale e particolare. Sì, un po’ immaginavo l’idea di abitare un teatro, il fatto che ci saremmo dislocate fra gli spazi e anche quello mi lavorava dentro. Immaginavo che mi sarei relazionata in uno spazio di un certo tipo e rimanevo aperta a quest’ipotesi per cui non ho voluto fissare troppo il movimento ma ho trovato i miei meccanismi per fissarlo sapendo che lo avrei regolato sullo spazio (Marina Giovannini).
Nell’obiettivo di trattare gli incontri con il pubblico come momento di condivisione del processo creativo, abbiamo chiesto a Paola di fornire anche a noi alcuni esempi delle tracce scritte da collegare alle diverse prospettive di osservazione da cui le coreografie hanno preso vita. E così cominciamo a riconoscere le associazioni:
Valentina/Michela: i suoi sogni sono incubi, una ragazza assassinata, il precipitare nel vuoto, un ragno che le cade in testa, un uomo che le tappa la bocca, se parli ti schiaccio.
Marina/Margherita: cammina molto, cammina in punta di piedi per non fare rumore; il suo corpo non è lì, si sente improvvisamente al posto sbagliato nel momento sbagliato, annaspa nel vuoto di parole e di azioni.
Sara/Alea: è neutro, soltanto quando si accoppia diventa maschio o femmina.
Ruhena/Rebecca: ha tutti i pezzi a posto però appena più in là, o più corti, o più lunghi o più grandi di quello che ci si aspetta, la bocca sottile che pende a sinistra in un ghigno triste ogni volta che tenta un sorriso.
Ruhena, ci spiega Paola, ha lavorato in parte su questa asimmetria ma non del tutto, ha lavorato anche di trucco facendosi questa bocca un po’ aspra ma non cattiva perché la sua figura non è cattiva ma ha delle piccole deformità mentre il mio personaggio è cattivo crudele, è una ragazzina di 16-17 anni della periferia del nord est che pesa 110 chili.
Ecco allora che l’impossibilità della simultaneità dello sguardo, come concetto guida dell’intero progetto, rimanda alla condizione originaria della comunicazione fra essere umani, del piano individuale per cui ognuno non può che partire da sé nella processo enattivo – cioè produttivo – dell’informazione: le tracce scritte hanno una loro qualità “numerica”, che viene compresa grazie alla codifica del linguaggio ma la traduzione in movimento, in azione coreografata passa per forza dalla soggettività e si trasforma in qualcos’altro.
Io stessa ho lavorato sulle stesse indicazioni per mio lavoro singolo. Vedere come quelle indicazioni che io mi ero data sono diventate attraverso di loro è straordinario. È interessante vedere cosa abbia generato in loro una partitura che è una descrizione precisa del movimento. Il tempo è diverso, i modi per eseguire lo stesso movimento sono diversissimi… (Paola Bianchi).
Ed è questa anche la base per ridefinire il rapporto con lo spettatore. Vero movente, come sottolinea Claudio Angelini, con il supporto di Ivan Fantini che ha partecipato attivamente alla conversazione, di una progettualità organizzativa del teatro che cerchi di uscire dalle logiche, certamente più facili, del mero intrattenimento.
In questo lavoro ho dato estrema fiducia agli spettatori, anzi vi ho dato in mano la cosa dicendovi di farne quello che volete. Avremmo anche potuto costruire un percorso di fruizione delle 5 performance, definendo i passaggi, i tempi, ecc. ma in questo modo avremmo costruito noi una “storia”. Invece abbiamo deciso soltanto di far partire i gruppi di spettatori da 5 punti diversi del teatro, per motivi logistici, lasciando poi la possibilità di decidere il tempo e il modo di guardare le performance. Questo è un modo per lavorare in relazione con la persona piuttosto che con il “pubblico”. È il singolo, infatti, ad aversi rimandato molto mentre eseguivamo le nostre partiture proprio perché essendo così vicini si è potuto creare un rapporto molto forte (Paola Bianchi).
La realizzazione di WITH nello spazio del teatro Diego Fabbri, cioè di “un luogo violentemente pensato per un certo tipo di visione e un certo tipo accoglienza” (Angelini), pone quindi come centrale il cortocircuito fra la dimensione creativa e quella politica che chiama in causa non solo la gestione dello spazio in chiave drammaturgica, la fruizione di un lavoro, l’esperienza interiore di ognuno ma la più generale responsabilità dello spettatore (ancora Angelini) e la riscoperta di un modello educativo all’arte e alla cultura da intendersi nuovamente come parte quotidiana delle nostre vite.

Sarà quindi interessante vedere la forma che prenderà WITH in uno spazio diverso come il Teatro degli Atti di Rimini il 4 aprile 2014, nell’ambito delle azioni C_A_P 07 Area laterale.

UNTITLED
an article by Laura Gemini on d'ars magazine n. 216


WITHOUT

Nel capannone 9 delle Fonderie Digitali, Paola Bianchi accoglie il pubblico già immersa nella sua performance, trascinando subito lo spettatore in una dimensione interna, personale che sprona lo sguardo di chi assiste a dialogare intimamente con se stesso.
La potenza visiva ed evocativa del nuovo lavoro della danzatrice e coreografa indipendente, Without, non ha bisogno di sottotitoli se non la citazione di Bertolt Brecht, suggerita dall’artista stessa: Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo contengono. Si tratta di una partitura scritta per cinque danzatrici che viene però interpretata soltanto dalla coreografa. Il corpo di Paola Bianchi racconta la situazione di cinque diverse figure, che si muovono senza sovrapporsi, affrontando un argomento molto forte: la collettività individuale.
La prima parte della performance è priva di un sottofondo musicale, solo una voce di donna che diventa sempre più distorta, accompagna la narrazione gestuale dell’artista. Ci si immerge immediatamente nella dimensione creata da Paola Bianchi, fatta di attesa e di aspettative finché la voce non si esaurisce del tutto, lasciando con il fiato sospeso.
I movimenti precisi e studiati di Paola Bianchi sono carichi di emotività. L’espressività dell’interprete è infatti molto forte e marcata, soprattutto in alcuni punti, e riesce perfettamente a catturare e a trascinare lo sguardo, creando immagini offerte allo spettatore: esse suggeriscono sensazioni di angoscia, privazione e impossibilità. L’impatto visivo è quindi forte, anche attraverso la musica che focalizza maggiormente l’attenzione sull’azione svolta e trascina sempre di più in quel vissuto che l’artista racconta con il proprio corpo.
A chiusura la danzatrice si posiziona in un angolo, quasi rannicchiata su se stessa. E’ in perfetta solitudine adesso, lontana dal centro del palco ed è quasi irraggiungibile. La musica termina, le luci si spengono ma sembra ancora di trovarsi nel pieno dell’azione. L’atmosfera creata da Paola Bianchi scivola via lentamente, lasciando lo spettatore a discutere con la propria interiorità.
Without svolge sicuramente un lavoro che va a scavare nel profondo e nell’intimità, catturando e raccontando con grande intuizione il vissuto e le sensazioni di un soggetto all’interno di una collettività.
Chiara Venanzetti, Pensieri di Cartapesta 15/05/2013
 


DUPLICA

Paola Bianchi's Duplica is a fascinating solo. Common sense says this is an expressive dancer using various carefully positioned light sources to send shadows on to a semi-opaque black scrim. We know this because Bianchi begins her piece front of curtain, in full view – and we can see the control she has over her long, elegantly elastic limbs. But when she goes over, to the "other side", common sense is soon in freefall. Her shadow becomes a thing apart. Shape-shifting, looming large and distorting into forms that nudge us towards childhood's bedtime fears or primitive superstitions.
Is this perhaps her soul? A manifestation of threatening, possessive evil? An exhalation, even a purification, of her innermost corrupted self? Who, or what, is in charge within this duality?
Even if you can rein back your own instinctive imaginings and concentrate your focus on the craft and technique that power this piece, there still remains the intellectual pursuit of why we assign such mythic meanings to those opposite forces of light and shadow.
5/5 stars


In Plato's fable of the cave, what the prisoners think of as the world is merely the play of shadows in the firelight. In Duplica, Paula Bianchi uses her meticulous, intense study of the play of body and shadow to inhabit – but also question – this founding parable of perception and reality.
Under Bianchi's spell, how we think of reality loses its certainties. The shadow takes on a life of its own, and then, in Derridian play, displaces the norms: the shadow is freed from its status as secondary to the body. Once shadow becomes primary – once shadow becomes reality – Bianchi transforms and becomes fluid, strangely shaped, insect like, abstracted; alien. In the world of Bianchi's performance, we change our perceptions of how the body is; how images represent the physical, how sound represents motion.
These experiments in the metaphysics lab aren't simply abstract: the effects are sensual too; with surreal and unnerving sequences where Bianchi's body grows to be suffocatingly larger than the theatre containing it, or when it distorts into nightmare shapes reminiscent of Dali's Soft Construction (Civil War).
Bianchi's achievement is to take such abstract ideas and make them visceral, making us feel for a few moments the superficiality of our assumption that what we see is how things are.
4/5 stars



During the past few sunny days those of us in town have had a chance to notice something often overlooked: our shadow selves. But our shadow is not merely the interaction between sunlight, our bodies, and pavement. It is a reminder of what is mysterious, indefinable, and bottomless about our human experience. In her haunting and evocative piece, dancer and choreographer Paola Bianchi methodically explores this phenomenon of literal and mythical darkness in Duplica.
Episodically structured, Duplica begins with a body trying to move without its body. In 3D space, Bianchi is a head attached to combat-booted feet – the way kid-logic might draw a person. Crouched, she shuffles along in a grid, laboring and hindered. Later, Bianchi has moved behind a large drop and now it is her shadow we encounter. By contrast the shadow moves freely, has all its limbs, sometimes many more than anticipated, and is capable of virtuosic, dancerly extension and flexibility. Bianchi plays with our perception of light and dark in contemplative moments when her body parts obstruct the light and, in turn, the light distorts her negative image. In front of one floor-mounted lamp she is able to “erase” her own knee. Her long, articulate arms, seen in a glowing rectangle, become branches, tentacles, elephant trunks, ribbons, blades. Much of what she does recalls film – both early experimental cinema and the great black-and-white Noir classics – in its understanding of shadow as refuge and light as menace. Her drop is a black cloth, not a theatrical “scrim” that disappears when backlit, so when she is illuminated in that area she appears grainy and out-of-focus, like a 16mm reel shot a century ago, like looking back in time.
There are a few duets where both her body and her shadow are fully visible, and these are rich with associations and dream-imagery. She appears hunted, haunted, followed, and found by her dark partner. Yet, for all that is accomplished in the piece, her execution is remarkably simple: a dancing body, a drop, some white lights used to illuminate and obscure. There are no pyrotechnics; although there is a section when her two-dimensional self becomes so large it consumes the entire space, reaching up past the skylight and into the night.
Our shadow selves are inside us, beside us, and surrounding us. In her thoughtful and uncanny piece, Bianchi delves into the experience of meeting one's dark side, and succumbing to its wisdom. Duplica is a challenging, intelligent work deftly and deeply considered with the ability to reveal both the blinding light and infinite darkness inside us all.
4/5 stars


A magician of light and a craftswoman with simplicity. Haunting at times and lusciously warm and rich at others, Bianchi has created a piece using the least possible to do the most with. Her use of light is brilliant, and quite often you forget that you're watching the human form move. An enticing use of shadows and movement to a soundscape echoing space, emptiness and full discordant harmonies. Duplica is performance art, stripped of clutter, but littered with questions.
3/5 stars


DIGIMAG 51 FEBRUARY 2010-02-24
THE SENSE OF A CLEVER BODY
AN INTERVIEW WITH PAOLA BIANCHI

Txt: Massimo Schiavoni / Img: courtesy by Paola Bianchi / Eng: Mimi Peña

Paola Bianchi's dancing body is everything, sometimes nothing, sometimes everything to discover, "expect" and fully understand. The human figure and anatomy, it's mind and introspection that implode strength and elegance, dynamism in the emotion she puts on stage since the early eighties. She has travelled, fought and stopped, she knew without looking back and she continued.

She dances for herself, as she says, "the theatre is very little." You need to be aware and professional to clarify certain statements, today nobody gives you anything, and this proliferation of festivals and events real talent is sometimes not directly proportional to their expectations. Paola was taught to dance at the school Bella Hutter of Turin. From 1980 to 1986 she worked in the company of Anna Sagna and then became an independent choreographer. In 1994 she opened her own company Agar, the one that in 2005 became the Agar Association.

To promote the dissemination of dance and contemporary theatre, she works in art direction, festivals and numerous research laboratories and collaborates with various influential personalities in the world of visual arts such as Ivan Fantini, Marzia Migliora, Paul and Menno De Nooijer, Barbara Klein not to mention all the artists involved in her shows. From Clotilde Clotilde her latest show UNO, Paola began her research and designs thanks to her artistic personal passion to novels and literary texts, from  mathematical processes to psychological pathways to intimate reflections on the body and movements, anatomical visions, corporal, carnal and mental.

Paola externalized and materialized at the same time, her image is amplified because of the alphabetical study of the body, sensitivity level and specific perception of the individual. In her performance experience she has internalized a "conscience", imitating shapes, positions, sequences dominated by her thoughts or to decode the meanings in spectacular events both communicative and functional.

Her body stimulates skilful and centralizes both krad and psyche, being the centre of reflexivity and materialization. She "owns herself", thus reflecting the bond with others, whoever it may be. During the viewing there is deep meaning taken in through the eyes, which is breathed in and felt internally, a new body image, a new plastic sense, a new brain, a new "principle of control" of alphabetic primaries.

Performance is seen as a mental space, as a private conscience in a common area, "sede Opus est". Her dance is like an integration of neurology, collective expression, enchanted metric orchestra. No psycho sensory distance, mimesis that ensures the continuity of the flow of Paola Bianchi's emotions as a fascination and seduction sincinetica synaesthetic and the modular game dance". Strong personality, Paola, in a critical body, also highlighted by the detailed interview we had.

Massimo Schiavoni: Who was Paola Bianchi and who is she today?
Paola Bianchi: I was a little over 20 years old. I left the Anna Sagna's company - because I could no longer be just an interpreter, I had to create, together with Enrica Brizzi Gincobiloba we established the company. In a small theatre we met in Turin with Ermanna Montanari and Marco Martinelli -early in their career- during the eighties- but already famous in theatre world. Mark had sent us a letter - there was no Internet and even fax was rare - with a list of the names and addresses of important organizers. We knocked on many doors. Sandro Pascucci opened the doors to us giving us a place for rehearsals and he gave us the opportunity to submit our first job during the opening season of the Petrella theatre Petrella in Longiano. I still remember the smell of Petrella, the smell of the just completed renovation. That's when possibilities began to open up, we came into contact with the world of "experimental theatre" -that was its called- but it all had to do little or nothing with real dancing. We started with our little car charged with settings for the play beyond belief. We stopped at festivals asking for a room, a small space to present our work and during our summer travels, I remember arriving to Narni - a festival that no longer exists - with ingenuity and insight, directed by Giuseppe Bartolucci.
This was the beginning, more than twenty years ago. I thought we could change the world, I was almost certain. I thought the theatre was a new world to be discovered, viewed from an angle - not enough experience to feel the opportunity to participate and everything outside of the theatre seemed to rotate around it. Twenty year old ingenuity... In reality there were no competitions or calls for those under 35 years old. There was a time for the under 25's, but I was already at least 27, then one of them for under 30's and I had turned 31. Well I never was part of an under and now I am happy. Nonsense! How childish to consider that, keeping young people in a ring, controlling them, giving them a treat every now and then only to be critized by everyone, deceiving and abandoning them once they have passed the threshold of the Under. Then many things changed in my life (Gincobiloba was dissolved, I established Agar and  worked alone) and in my perception of the world. Gradually I realized that the skills, the beauty of a work force of a performance are limited in the theatre world. I realized that that world was and is corrupted just as the one outside, we pretended to be a big family, everyone knew everything about everyone but no one really took care of others. We never changed the world because it also changes on its own with small things. The correct behaviour was daily honesty. The theatre is not all, indeed very little. My always rule breaking and nomadic spirit in fact has precluded me many opportunities. But I do not regret that. Not now and not ever. Now I’m over forty, I try to give a sense to the place where I live, change has come in taking small steps, slowly progressing daily. The horizon, though larger, in my view has narrowed.

Massimo Schiavoni: You have obviously chosen to be yourself and you understand how this world sometimes seem so fake. Your responsibility brings out your passion and you do not feel the need to say yes at all costs and to all the bosses. Tell me a happy or bitter story about the naive Paola Bianchi and one about the alert and mature Paola Bianchi. Do you regret more your trip to discover the "theatre world" or occasions "lost" due to the fact that you never settled for less or compromises?
Paola Bianchi: Hard to tell the story without saying people's name. I will not say any names though, that would be unfair. My inability to stay quiet and pretend that everything is fine often penalized me. But I do not regret nor reject anything. I would remake the same choices, I would say the same things over again, criticize the same behaviours and ways, I would fight  -like I still do- against the incompetence and approximation, two of the most common and serious evils of our time, I would pay the consequences all over again. I do not believe to be sensible, surely, impulsive strict with myself and with others. I cannot remain silent in front of injustice, the rampant inability, especially when my target is someone powerful, power does not like criticism.

Massimo Schiavoni: "Let's take a step back. Over ten years ago your interest in the Mexican artist Frida Kahlo paintings inspired the creation of one of your first shows, precisely FK performing on stage with Paul Call. Firstly I would like to congratulate you for your show, it is passionate and engaging to the right point. What did you want to communicate and offer through that sequence of movements and sounds? It seemed as something that was unable to free itself from an external body, something inspirational physically and sexually. What does inevitable provocation of the painter have to do with the lightness and strength of your dance or with you artistic research?"
Paola Bianchi: " Initially it was the story of her life that fascinated me and not so much her paintings. Later I realized that the elements were inseparable. In her paintings her biography is exposed, terrible incidents and her fragility come to the surface, deep wounds, children she was never able to have, her affairs, her flourish, communism, irony and death. "I paint myself because I'm alone. I am the subject of I know best. Her paintings tell the story of a body in state of anxiety and excitement. She exposes her body in a way a Christian martyr would for her religion. In her paintings you can see colours, shapes and the reality in Mexico. I visited Mexico, her home, I saw those colours and shapes. I realized that death in Mexico is intended as a source and not as an end. FK was born together with the fascination with that world, a complicated life and yet so full of desire. I was interested in going beyond Frida's personality, universalize the story and then return directly. On that canvas there were difficulties, fears, power and the struggle of many people. At that time few knew Frida, there had not been any film about her life and only one biography translated in to Italian. I had to find information in Spanish and English. I could not assume anything. I worked on her story as a story about an ordinary woman, full of contradictions. I put on stage two women, two opposite figures.
One represented possibility, capacity, dynamism meanwhile the other figure was forced in to a cage of struggle, heaviness, and neglection a sort of physical handicap. I always thought that the disagreements, friction may arise strong emotions. The encounter between dance -the symbol of strength, muscle power, weightlessness- and a body forced to limited mobility and the desires go be able to do so. Like it or not we focused on the defects of deformation. We spend our lives trying to hide them trying to blend in with others, probably because it’s more reassuring and comfortable to feel like others. I wanted to give a voice to dignity and diversity and Frida Kahlo was the undisputed symbol of pride for diversity.

Massimo Schiavoni: "How do you define the body, your body in the 2002 Sinesuide – imposizione verticale?  In this project you on a text, a novel by Darrieussecq. What is your relationship with the text and with the creation of transformative-transfiguring using videos and narration sound? In my opinion you are successful because you are able to conceive a kind of installation in progress by placing human actions, videos and related works all together bringing out flexibility, agility, spaciousness and a faithful cool rhythm."
Paola Bianchi: Sinesuide – imposizione verticale originated as a part of a more complicated show ADIUS Utopia. The work was done by Ivan Fantini (chef and artist, with whom I worked with for various shows). In particular I investigated the choreography while the video was done by Ivan Fantini worked on the installation and creation of food enjoyed by 24 spectators. Adius Utopia began from Ivan’s passion for pigs, he made a deep reflection on wasting meat. Adius Utopia stages the fifth quarter (head, tail, feet, and all the inside parts of the pig) the butchers call cheap meat, able to meet the nutritional needs of everyone in society and becomes an product for economy, thus fostering the economy’s growth of the first choice pieces. The scene in the fifth quarter in Adius Utopia was linked to the slaughter of a human being seen as aseptic, antiseptic, claustrophobic, where people struggle to live everyday.
Here came in to play my specific research about the body. Working on detail. Sinesuide – imposizione verticale is not meant to be represented on stage in a theatre, action and vision share the same space. It approximately allows us to see the contraction of the muscles, the tension of the nerves, the vibration of the skin. A precise dance-off, in part concentrated on the details. Dynamic static motion, constriction of the place. The recovery of details in videos widens the closeness, almost pushing the vision within the body. I wanted to show the innards through the skin, the vibration of the interior without exaggerating the shape of things. Marie Darrieussecq's Troismi gave me the images I needed for body transformation from human to animal, from woman to plant. It’s fundamental and necessary for the creation of my works from one to other texts, images, visual and audio. Everything learned becomes body, body transformation, and choreography. Parallel to the choreographic comes the need for written material. Not only to explain the actions but as a mean to conclude the work started. So these are the cards I play, evocative rather than explicit using texts in my shows. One of the ways to dig in the same direction but using a different tool.”

Massimo Schiavoni: “After the solitude of the Odysseus and the various Kytos immobility, in the 2006 you performed in Corpus Hominis, three different and celebrated dancers. How did you manage to build the contemporary body and what definition do you give to setting and time? Plus is the separation between soul and body really that absurd?”
Paola Bianchi: “Corpus Hominis marks an important step in my path. After interpreting things in first person, I felt the urge to leave the stage and become a spectator. Beyond that I wanted to explore the male body in terms of choreography. Compare that body so different from mine, it was so powerful, strong and had a particular internal rhythm. Corpus Hominis speaks of bodies. Bodies undergoing the consequences of their actions. A dissected body, divided into organs, medicated, measured, photographed, painted, educated, be accepted, a celebrated body as a model in contemporary media that does not really belong to us, a "docile body", to quote Foucault. The body is a surface on which are inscribed with the fundamental precepts, hierarchies, and even the metaphysical orientations of a culture, that the same body language reinforces. I have decided that male bodies are representative of human beings. I chose them because they are victims of themselves, the culture they created. Reminiscence is not a woman, its reality. The power is still in the hands of the male gender. I think that anyone on stage has to understand the meaning and real motivation, like what is the purpose of him being there in front of an audience. At any moment, even in utter stillness - and indeed precisely in moments of stillness - we must continue to be, inside the scene, credible, believing in it. This is what the extensive studies that precede my shows are for. I tried to do the same with the three dancers in Corpus Hominis. I handed them my thoughts, my doubts, my written and spoken words. We watched videos, we talked for hours about everything, from the food they ate for energy and how we burned that energy daily. An exalted body and then emptied, praised and reduced to an object, a body that can no longer move. It 'was in some ways a battle, but not between me and the three dancers, between us and ourselves, our body, our being. This is what Corpus Hominis means to me, these are the three bodies on the scene. But those three bodies, as contemporaries, they lived in one place and at the same time, a time that does not belong to us. The choice of the space was completely black beyond the convention of the theatre’s space. Was black by choice. And many times it was just working on this black, the darkness, the difficulty of perceiving the bodies, sometimes fleeting, sometimes lost in a haze that eliminates the boundaries of the site. The area of Corpus Hominis is a place not all, it is a black screen on which we close our eyes at night, is the site of collection of images, the place of memory. And 'the black around us, beyond the boundary of our skin, the dark side of our western world mock protected and protective. Its an autopsy lab, alive but lifeless. It is equivalent to the black dazzling white. At the same time has a duration measure, a temporal location identified by this experience. E 'timeless time, not hours, but infinitely long and short at the same time. Symbolically, it is the educational development and yield of the body. "The robes erase poverty of animal life, hide those organs which are redundant for the expression of the spirit, if not covering the head, it is because there is the spiritual expression of the human figure." Here, even around and against phrase of Hegel, a concept throughout western and cerebral - the celebration of the liabilities of the meat for the mind – that’s how Corpus Hominis was born.
I do not think that the place of the soul and mind both reside inside the head, they’re separated from the rest of the body. The brain is located in the head but that does not mean that the rest is removed. The body has an intelligence, a memory that goes beyond verbalization. The dualism soul / body, mind / matter from Plato - the body as an alien, the cause of all evil – a quote by Augustine - the body as an enemy, heavy and serious -, Descartes - the body as raw material, a body conceived by the intellect and not by life lived, a body in mind and not in the flesh, a body and not an anatomical entity of life - and Christianity - to control and restrain the natural impulses of the body -, was finally formalized by Freud. Lakoff says reason is made possible by the body, the core of our conceptual system originates in the structured nature of bodily experience. Thinking also means having a body in dynamic relationship with the environment and many categories of thought are mental representations of states of embodiment.” As Umberto Galimberti writes in "Psyche and techne" dualism, body and soul is an effect of reflection that looks at the man after his action allowing it to live. Instead watched from the perspective of the action, the duality is dissolved because everything that is reported to the soul, culture, spirit, already appears immediately as a condition of the body's biological life, and is that activation technique that allows the body to live despite his failure biological, its lack of specialization, the lack of environment. Here, I share these thoughts fully.”

Massimo Schiavoni: Per Figura Sola comes from your Visioni Irrazionali, after studying and thinking for years about Fibonacci’s numbers and the golden section. Explain the relationship between these visions and measures, with the staging of the performance. Why does a figure remain on stage alone? The definition and the acceptance of a sort of helpless loneliness - I think - of mutations remained in the throat, exhausted space without being filled.
Paola Bianchi: The Visioni Irrazionali study was on scene, the public display of the thoughts that instead of merely filling my notebooks, filled and inhabited spaces, with freedom of form. Short site specific work, from installation to performance, usually in the form of itself. Investigating the series of Fibonacci numbers and the golden section went beyond the immediacy of the number and perfection. With so many performers who have lived my Visioni were touched and the approval behavioural issues of which we are subjected to constant monitoring of our actions, of solitude is met before the submission of the manipulated body, forced, of transience, the static nature of the fall, attempted flight of perfection and its opposite, the grinding of the images of the breach of identity. This study has served to build publicly exposed Per Figura Sola. While I thought this new job I realized that I had to work for subtraction, rather than adding - as he would Fibonacci. Those numbers are internal accounts to the choreography. Remains the golden rectangle drawn on the floor. I wanted to achieve the essential, I wanted there to be a deep sense of that path, which I believe is the solitude of the figure in a predetermined area.
Here the patterns on the floor becomes like snakes and ladders. A fixed circuit in which the change is only possible within the box. We worked on fiction. On the transformation, or rather on attempts to transform. On being on the scene, about loneliness, with no way out. We investigated the space. Space with no way of escape. A space that does not provide freedom of decision. A kind of bleak and desolate area, inhabited by custom. “

Massimo Schiavoni: Two figures return to the scene in Cessione, you and Valentina Buldrini. Also here is the black is in the background together with the empty space as opposed to red. Memory of an autobiography, what role does this liberating ceremony, where latrine gestures live together with personal but also collective privacy?”
Paola Bianchi: "I am truly the greatest of all because I can make three hundred thousand lire in a night, and even half a million and send someone else to sing for me, because who knows Piero Ciampi?" This is the sentence Piero Ciampi said in 1976 (great poet and singer born in Livorno, little considered in life, but now seen as, after almost three decades after his death, a cornerstone of Italians singers-songwriters) said during an interview, made me think about the meaning of our doing and what the outside world perceives. To our being recognized or anonymous, the impact on contemporary irony is needed to give meaning to our lives. In Cessione the two figures to live in two separate locations, different and far apart, suspended in a black space, black was necessary, a fundamental choice. Two platforms that float. One is the location of the gap, the dead gesture, thought that it had no voice, the other is the place of memory, reinterpreted, re-experienced and therefore little real. The first is suspended in a red semicircle, circumscribed and protected by a plastic surface that dissolves boundaries. Necessary protection, the intimacy of the place could not do without. This is the area of the gap. Within a latrine of a toilet. At first, the figure wears a wig constructed with VHS tapes containing the footage of my old shows, the real memory. The wig will soon be in the toilet, to become embodied memory of gestures on the other figure is the true strength of the work. The tapes are engraved signs that have gone through the whole body. The same movement that the head - the place of images - get to the bottom of the back for getting lost in the moment. Another figure - that Valentina Buldrini, dancer by the full potential, a supple body, flexible, intelligent and rare ability to become more - I wanted to entrust the task of reinterpreting the gestures lost in the memory of performers and some attentive audience to her I wished to Cedere that burden ephemeral yet heavy. The work of the dancer is lost in the air moved by the stage. Sweat, toil. In acts that have created emotional reactions. Sometimes we struggle to shake him off, those gestures, sometimes we go to find them to feel us until the end. But the memory remains in the body internally, difficult if not impossible to verbalize. That memory dies with the decay of our body. With the inability to replicate the movement to return to being lost. I wanted to expose my difficulty in accepting the oblivion express the need of memory, personal, collective or historical it is. They accept the deformation in the interpretation. Giving new life to death pictures. Cessione is a will, a piece of autobiography with gestures. My stand on the stage is testimony, fixed point, acceptance of distortion, de-imagining of the image, post-mortem in the latrine. Cessione is a biography of the vacuum. But the vacuum is necessary.”

Massimo Schiavoni: Paola, what is the true identity of the protagonist in your last creation Uno? What is expected and what are your plans for the future?”
Paola Bianchi: The true identity of the protagonist of Uno is the lack of identity. The difficulty of a life fake life. Loneliness infinite variety which we are isolated in front of our personal and private computer in a very special relationship with the keyboard and the mouse. Agamben writes: ... The new identity without the person maintains the illusion of not one, but an infinite multiplication of masks. At the point where it nails the individual to an identity purely biological and asocial, Internet almost promises us that we will be able to take off all the masks and have other possibilities, none of which can ever belong to themselves.
This non-identity or better yet unidentità, using the privative alpha rather than the negative prefix, thus this becomes the true protagonist. Unable to really transform, even through costume changes, unable to fully share the action that takes place, unable to make quick decisions in arrhythmia atonal, one being there without being there. Unfinished movements, doubtful, approximation of the gesture. Done without an absolute sense, at the end of the action, to the moment in which it occurs. Indecipherability of signs. Slipping in doubt of not definite doing. UNO is an act without solution, without the game.
Uno is a breakdown, a complaint of difficulty, an inability of being. Yet in these many difficulties there’s room for a smile and for sarcasm that I found to be more appreciated and understood in the Nordic countries than here. Uno is in desolation, disaster waiting to happen, the scene of errors after errors (the use of space for use of lights, created by Paolo Pollo Rodighiero, lighting designer I have worked with for a very long time, a master of lighting), is the decline of our time, our land, the beautiful country. There is the silence of our imperfect time. Illiteracy aesthetic evidential. This creation of a desolation and this helps keep struggle of a text item from the book written by Giuseppe Genna wrote Italia De Profundis, one of the most interesting writers of the Italian scene, who with his cultured prose and never banality devastates our hearts.

Expectations and plans for the future.... I prefer not answering the first question. When it comes to future projects instead continue to rise and follow each other seamlessly. Now I am focused on the new job, UNO, that after the debut at the Milan PIM February 6 will be in Vienna for a week on tour, then in Frosinone, Castiglioncello, Bologna and hopefully not stop there ... I'm working on parallel a show for children (age range 3-5 years). A job that should not be ignored, a different approach, lighter, but no less important. And then there's the attempt to spread the culture of contemporary dance in Rimini (where I have lived for the past 8 years). Virgin territory. A job I have been doing a few months with a group named collettivo c_a_p.


DUPLICA _ ITALIAN REVIEW

A inaugurare la serata, “Duplica”, spettacolo creato da Paola Bianchi in collaborazione, tra gli altri, con INCANTI/Controluce Teatro d’Ombre di Torino, e pensato dall’artista torinese per “sperimentare il mondo dell’ombra e della luce utilizzando unicamente il corpo”. Ne è nata una storia, raccontata sostituendo le parole con le ombre.
Paola Bianchi entra gattonando, con la schiena dritta, facendo scorrere una gamba ferma sotto l’altra che procede come certi bambini che, alle prime gattonate, preferiscono questo stile piuttosto che il classico carponi. Poi si alza, leva le scarpe, e cammina.
Ora il rumore di passi e suole che sentiamo è fuori sincrono rispetto al suo, scalzo: c’è qualcun altro dietro al velo nero che fa da fondale.
Da questo momento in poi, continuamente entrerà e uscirà dal nero, abitando la luce e vestendosi dei suoi effetti. La vedremo chiaramente davanti a noi; scomparire e ricomparire dietro al velo, in un primissimo piano enorme che sgrana i contorni e poi improvvisamente piccola, in una sagoma definita che sta sulla linea dell’orizzonte. La vedremo plasmarsi in diverse forme e sdoppiarsi in due figure speculari ma identiche; la vedremo sovrastarci in un’ombra che si fa sempre più sottile fino ad afflosciarsi su se stessa; la rivedremo davanti a noi, con nuovi abiti rossi e un’acconciatura diversa, inciampare impacciata.
Procede così il racconto di Paola Bianchi, e di una qualsiasi donna, che si copre per scoprirsi, che usa un velo per svelarsi, che emerge dal buio e che alla luce sparisce, come nel finale, dove il buio è un bianco pieno di luce.


Una donna scruta chi entra, aspetta. A sua volta pronto a guardare, il pubblico si trova coinvolto in una strana passeggiata preparatoria. La figura femminile cammina in cerchio, mani sulle caviglie, all’unico rumore dello strisciare dei piedi. Con gesti elastici si slaccia gli scarponcini, si alza il vestito, nero come il tendone che divide in due la scena, nell’intento di stare più comoda. Prova gesti che sono movimenti di rimbalzo. Anche la musica sembra un palleggio di battiti, che assecondano i gesti. Sperimenta così le possibilità motorie del corpo, riflessi più o meno condizionati della coscienza. E lo fa prima alla luce, poi nell’ombra dietro il tendone. È un continuo andare e venire, dallo scoperto del mondo esterno illuminato al rassicurante mondo dell’ombra, in cui hanno luogo tutte le proiezioni. Da dietro il telo, infatti, la protagonista e coreografa Paola Bianchi cerca la sua ombra nei movimenti sperimentali ed elastici di testa, braccia, mani, gambe.
Duplica è questo gioco, molto serio, di prospettive riflesse sul telo nero, che diventa specchio della percezione di sé. Visibili contemporaneamente sia il corpo reale sia il suo doppio proiettato, a tratti essi sembrano sovrapporsi, senza mai riuscirci davvero. Se per un attimo torna riconoscibile la figura di lei, al ritmo di inquietanti tamburi si dilata enormemente, cambia in forme indefinite e quasi mostruose, come nei sogni, che spesso si rivelano incubi.
Questa continua ambiguità è necessaria, perché produce una dialettica feconda: le ombre deformano la nostra visione delle cose, come quando il corpo della protagonista, proiettato sul telo sembra avere la possibilità di volare via. Alternando musica e silenzio, corpo illuminato ed ombra proiettata, ognuno viene coinvolto in fantasie individuali, seppure potenzialmente condivise. Impreparato all’ombra totale, al buio, lo spettatore nel rivedere la protagonista ora vestita di rosso capisce di essere uscito dall’esperimento, dall’ombra.
Attraverso lo studio del corpo e delle sue potenzialità di movimento si costruisce la coreografia, ricercandola. Senza un senso definito a priori, la danzatrice si fa trasportare, e chi la guarda con lei, seguendo le tracce dell’ombra, ineliminabile contraltare della luce nel modo fisico dei corpi di stare nel mondo. Paola Bianchi crea così la sua performance, seguendo una regola, costruita nella sua messa in opera.


“Duplica” di Paola Bianchi è un interessante lavoro sulla luce e sull’ombra come possibilità di duplicazione del corpo, che perde i suoi contorni e la sua definizione, costretto quindi a cercarsi e a cercare di definirsi.


Con il suo “Duplica”, Paola Bianchi ha proposto uno studio sull’alternanza di luce ed ombra. La danzatrice inizia lentamente, nel silenzio, camminando inginocchiata sul palco. La musica entra con delicatezza: dapprima è soffusa e ritmata e ricorda il suono di un vinile che gira a vuoto, poi prende sempre più forza.
Esplorando le possibilità del mondo dell’ombra, Paola Bianchi danza spesso dietro un tulle nero, sfruttando diverse sorgenti di luce per dar vita ad immagini complesse. Propone tecniche già esplorate, ma in modo originale. Più che stupire con immagini spettacolari, Paola Bianchi riesce a duplicarsi: oltre alla sua ombra proiettata sul tulle, si vede infatti anche lei stessa, a pochi metri di distanza dal tessuto. Il suo esperimento tocca punte di forte emozione quando arriva a mostrare, quasi come in un’ecografia, un embrione che si muove nel ventre della madre. Sembra cullarlo dolcemente dentro di sé e per un attimo la magia riesce e il pubblico resta incantato a contemplare lo spettacolo. E subito la danzatrice svela il suo “trucco”, lasciando intravedere il suo braccio che muovendosi intorno alla pancia genera quella poetica immagine.